sabato 15 dicembre 2007

"Cassa e famiglia".

Pubblichiamo una copia del documento che le lavoratrici del negozio Coop di Grosseto invieranno alla rivista Nuovo Consumo, al giornalino Noicoop, alla commissione pari opportunità Unicoop Tirreno, alla direzione della nostra azienda, dopo la pubblicazione dell'articolo "cassa e famiglia" o se preferite il titolo utilizzato da Noicoop "cassiera con il sorriso".
Questo articolo, dando una immagine banale e superficiale del nostro lavoro e riportando un caso limite, ha veramente offeso la nostra dignità di lavoratrici.
Vi chiediamo di pubblicare il nostro documento per ridarci quella verità e dignità che ci è stata tolta.

A proposito di un articolo su Nuovo Consumo: Cassa e famiglia

Le vite delle donne sono una miniera di storie “normali” che costituiscono la trama di una società. Le lavoratrici della Coop non si differenziano per le loro caratteristiche specifiche o per il tipo di lavoro che fanno. Anche loro sono “portatrici” delle centomila difficoltà che ogni donna, da sola o in ogni famiglia deve affrontare.

E’ vero la Coop è un’impresa che rispetta il contratto di lavoro, in cui le condizioni sono migliori di altri posti o uguali ad altre aziende che rispettano i propri dipendenti. Ma il lavoro di cassiera ha una tipologia che anche la Coop non può modificare: è ripetitivo, stressante. La cassiera è obbligata ad un rapporto continuo con il pubblico (non sempre gentile, non sempre corretto). La cassiera, specialmente se sposata, deve conciliare i propri orari (in cui ci sono i festivi) con la propria vita, con la scuola dei bambini, con i propri rapporti sociali, con la casa.

La realtà, insomma, di un impegno complesso, scarsamente creativo e gratificante dal punto di vista individuale.

E’ vero è un lavoro. Ma un lavoro non è un privilegio, è uno scambio tra il datore e l’operatore, è un diritto. In questo tempo di precariato dilagante si rischia di perdere di vista questi elementi essenziali.

Nuovo Consumo è riuscito con una breve intervista a smentire la semplicità di questo concetto. E allora, dobbiamo veder tratteggiata e leggere, ma, soprattutto, diffondere tra i cittadini, una visione idilliaca e astratta della vita della cassiera attraverso una smielata intervista con un titolo ancor più stuccoso?

Forse la nostra azienda vuole chiamare a modello quel tipo di lavoratore tutto “cassa e famiglia”? Forse chi ha scelto di pubblicare e chi ha scritto crede veramente che le cassiere siano tutte soddisfatte e sorridenti?

Dispiace smentire questa visione, che poteva avere una collocazione idonea in una pubblicazione fedele ad un regime, oppure in un “romanzo rosa” dove il finale è sempre bello. Dispiace soprattutto che quella che potrebbe essere una buona idea, raccontare le storie di donne che lavorano per la Coop, sia stata sprecata per tratteggiare un profilo parziale o almeno un esempio limite.

Dispiace perché e soprattutto non è questa la realtà della Coop come azienda. Dalla sua fondazione nella Coop non vige un regime, non sono necessari i “servi sciocchi”, ma, proprio perché nata dal movimento operaio, è ben diffusa la consapevolezza del significato del termine lavoro, e la vita è “reale” perché è un’impresa nata nella realtà.

Una sola cosa ci consola, i cittadini, i nostri clienti, che hanno letto (forse) quell’articolo conoscono bene le commesse e tutto il personale della Coop, sanno bene che quando entrano in negozio trovano altre persone come loro, con i guai e le difficoltà, con la disponibilità e le capacità che potranno mettere a disposizione, con i limiti che ogni giorno ognuno di noi ha. In questa normalità “difficile” ci sono le storie vere in cui l’incontro tra consumatore e personale si ritrova su un piano comprensibile.

Lavoratrici del negozio 75


giovedì 13 dicembre 2007

"Significativi avanzamenti" nella trattativa per il contratto.

Pubblichiamo un comunicato sull' esito incontro, avvenuto il giorno 11/12/2007, riguardante il rinnovo del nostro contratto nazionale di lavoro.

FEDERAZIONI NAZIONALI LAVORATORI COMMERCIO TURISMO E SERVIZI

COMUNICATO UNITARIO delle SEGRETERIE NAZIONALI
Trattativa Rinnovo CCNL Cooperazione

Nell’incontro del 11 dicembre 2007, per il rinnovo del CCNL della Cooperazione, sono stati raggiunti ulteriori importanti risultati sul Mercato del Lavoro nonché un primo risultato sul Salario.

Le Associazioni Cooperative, infatti, hanno accettato la nostra richiesta, di erogare una prima trances di aumento mensile, visto il perdurare dell’aumento del costo della vita, ed è stato concordato che dal 1° gennaio 2008 partiranno in busta paga 50,00 Euro riparametrate con riferimento IV° livello (comprensive di I.V.C.).

La parte economica dovrà ovviamente essere completata sia in riferimento alla richiesta della nostra piattaforma di un aumento di 78,00 Euro per il biennio, sia riguardo alla copertura del 2007.

Intanto questo è un primo segnale tangibile di sensibilità rispetto ad una situazione economica non più sostenibile per i lavoratori e della volontà di proseguire in modo costruttivo la trattativa.

Sul Mercato del Lavoro, i risultati più significativi riguardano:
L’elevazione dello zoccolo del part-time da 18 a 20 ore, richiesta da noi fatta in piattaforma a fronte dell’esigenza dei lavoratori di incrementare le ore di lavoro;
Trasformazione dei contratti a termine a tempo indeterminato dopo 36 mesi senza utilizzare l’ulteriore proroga prevista dalla recente Legge;
Elevazione della percentuale di conferma dell’apprendistato dal 70 al 75%.

Anche se questi risultati non esauriscono tutte le nostre richieste, e dovranno essere ulteriormente migliorati, tuttavia costituiscono un buon segnale verso la stabilizzazione del lavoro e il superamento di forme di precarietà.

E’ stato chiarito, inoltre, il problema della flessibilità superando l’iniziali richieste delle Associazioni Cooperative di avere discrezionalità di applicazione, elevazione a 46 ore settimanali e orario medio annuale.

Si è infatti concordato che la normativa verrà resa più applicabile, ma sempre tramite confronto a livello aziendale , dove dovranno essere raggiunte le intese. Resteranno inalterate le 42 ore e le 44 ore previste dal CCNL, e da parte nostra è stata data la disponibilità ad elevare fino ad un massimo di 24 settimane le 16 attuali, confermando pero’ il confronto sui programmi di articolazione multiperiodale degli orari.

Sul tema della Flessibilità, si è stabilito che la sua applicazione porti ad elevare la percentuale dei full-time e l’aumento degli orari dei part-time. La normativa contrattuale dovrà prevedere che tale obiettivo deve essere concretamente raggiunto con gli accordi aziendali mettendo in correlazione questi risultati con i programmi di Flessibilità. Questo è un punto molto importante per la stabilizzazione ed una più equa distribuzione del lavoro tra part-time e full-time.

Rimangono aperti altri problemi che le Associazioni Cooperative hanno posto, e che dovranno essere affrontati ivi compreso il tema delle Cooperative minori.

La nostra valutazione sui punti sin qui raggiunti è comunque positiva e auspichiamo che la strada intrapresa ci porti a concludere positivamente in tempi brevi il rinnovo del CCNL e che il mondo delle Cooperazione continui nel segno della “distintività” rispetto all’atteggiamento ancora arrogante che si registra nella distribuzione privata e in Confcommercio.

La trattativa riprenderà il 23 gennaio e 6 febbraio 2008.

LE SEGRETERIE NAZIONALI
FILCAMS-CGIL FISASCAT-CISL UILTuCS-UIL

Roma, 12 dicembre 2007

martedì 13 novembre 2007

Riprendiamoci la festa!

Pubblichiamo il verbale di una importante assemblea svoltasi all' Ipercoop di Roma Casilina, con al centro il tema del lavoro domenicale.

Ordine del giorno
30/10/2007

ASSEMBLEA IPERCOOP CASILINA

Il giorno 30 ottobre 2007 presso l'Ipercoop Casilino si è svolta l'Assemblea dei lavoratori.

All'Assemblea hanno partecipato circa cento lavoratori. Si è dibattuto in merito alle dinamiche del lavoro domenicale e nello specifico:

turni domenicali dei FULL-TIME e dei PART-TIME, con riferimento alla mancanza nei vari reparti delle turnazioni a rotazione, con lavoratori più spesso impegnati nelle domeniche e con turni superiori a quanto previsto nei contratti individuali.

Si richiede inoltre, alla Segreteria FILCAMS-CGIL di Roma, di concerto con la CISL e la UIL, di prendere tutte quelle iniziative (raccolta di firme in tutto il settore della Grande Distribuzione, incontri con il Comune, etc., etc.), affinchè nella città di Roma ci sia un ridimensionamento delle domeniche di apertura (attualmente sono in numero di 42 annuali).

Approvato all'unanimità.
Roma, 30 ottobre 2007



sabato 3 novembre 2007

La Coop eri tu.

Pubblichiamo un interessante articolo - tratto da Left, 12.10.2007 - nel quale, partendo dalla recente polemica tra il Patron di Esselunga e la Coop, alcuni dirigenti sindacali vengono intervistati sulle condizioni di lavoro all'interno della distribuzione cooperativa.

La Coop eri tu.

Sfida con la Esselunga a colpi di offerte speciali per conquistare i consumatori. Ma le condizioni di lavoro sono sempre più difficili. Fine di un modello solidaristico?

Di Paola Mirenda

Da un lato Esselunga, dall’altro Coop. I due colossi della distribuzione si affrontano in queste settimane a colpi di comunicati stampa: la prima a aprire le ostilità è stata l’Esselunga di Bernardo Caprotti che ha affidato a un libro, Falce e Carrello, un duro atto di accusa contro Coop. Alla società rivale si imputa di aver usato ogni mezzo per impedire lo sviluppo del gruppo lombardo, usando il proprio potere politico. Ma Coop ribatte accusando Esselunga di spionaggio industriale volto a determinare una concorrenza sleale sui prezzi.
Per entrambi i marchi infatti il prezzo basso è l’arma per battere la concorrenza: promozioni, sconti, tessere fedeltà, offerte speciali. Tuttto è utile per attirare il consumatore, per “fidelizzarlo”, per indurlo a tornare in un negozio che deve essere percepito come parte della famiglia. Il consumatore, per Esselunga e Coop - ma il discorso vale per tutto il settore - è l’unico interesse. Un soggetto astratto, individuato solo per il suo ruolo di consumatore, sciolto da ogni relazione sociale. Ma abbassare o contenere i prezzi significa tagliare i costi, in particolare quello del lavoro: negli ultimi anni, sia in Coop che in Esselunga, si è assistito alla riduzione dei diritti dei lavoratori, dal punto di vista contrattuale e sindacale. Nonostante i duecentomila lavoratori della grande distribuzione organizzata (Gdo) rappresentino una fetta consistente di quei consumatori che si vogliono tutelare, i loro diritti non vengono considerati.

Se il “consumatore” ottiene un vantaggio certo non lo ottengono i lavoratori delle due catene, costretti sempre più a turni impossibili, stretti tra contratti di ingresso che li privano delle garanzie elementari, e con meccanismi interni che sono al limite del caporalato. “Ormai vige il sistema del piccolo padroncino, dove ogni caporeparto instaura meccanismi di personalismo che schiacciano ogni possibilità di azione collettiva”, conferma Luca Taddia, della Filcams di Bologna.
La coop per tanti anni è stata la mosca bianca del settore, e ancora oggi i suoi contratti integrativi consentono maggiori vantaggi rispetto alle altre catene della grande distribuzione. Ci sono però differenze nelle varie Coop che, è bene ricordarlo, sono indipendenti l’una dall’altra. La Coop Estense, che nel 2002 ha visto un lungo braccio di ferro con il sindacato, è stata accusata dalla stessa CGIL di “logica confindustriale”. Va meglio in altre sedi, ma ormai il disagio dei lavoratori è palese. “E’ chiaro che per competere sul mercato anche la Coop deve ridurre i costi”, aggiunge Bruno Mignucci, della Filcams Roma. “La disparità di contratto determina una difficoltà di rapporto interno, e impedisce spesso la solidarietà tra i lavoratori, che fino a poco tempo fa era una costante”. I nuovi assunti di Coop e Ipercoop non hanno le stesse garanzie assicurate ai lavoratori in forza da più tempo: contratto di ingresso a 36 mesi senza applicazione dell’integrativo, abuso del part-time che in Ipercoop arriva fino al 90 per cento della forza lavoro, una rigida catena gerarchica in cui entrano a far parte anche le aziende in appalto.
“Questo - aggiunge Mignucci - fa sì che nelle Coop si diffonda la mentalità di quelle aziende, fatta di atteggiamenti del tipo “fai come dico io e ti promuovo”. Manca lo spirito cooperativistico, e i lavoratori giovani, a part-time o a tempo determinato, sono i più ricattabili. Spesso anche il sindacato ha difficoltà ad intervenire. Nonostante questo, la realtà Coop resta ancora la migliore per i lavoratori del settore”. Migliore non significa ottima, come è possibile desumere dalle rare testimonianze dei lavoratori. C’è una forte paura a raccontare, il timore di essere individuati e quindi sanzionati, e certo non aiuta l’ultima sentenza della Cassazione che consente il licenziamento del lavoratore che parlando male dell’azienda romperebbe irrimediabilmente il rapporto di fiducia. I lavoratori che parlano chiedono di non essere citati, e solo dal sindacato vengono fuori episodi, piccoli e grandi, che disegnano la vita lavorativa nella grande distribuzione.
“Il problema non è tanto nei contratti, ma nella realtà di ogni singolo negozio”, spiega ancora Tadddia.
“Qui sono il capo settore o il capo reparto che determinano l’andamento interno. La discrezionalità del capetto di turno fa si che un lavoratore sia tutelato o meno. Ci sono stati episodi di cassiere che hanno chiesto di andare in bagno perché avevano le mestruazioni, e il capo settore ha mandato a controllare che ci fosse davvero l’assorbente nel cestino…” Se episodi come questo non rappresentano una violazione contrattuale, ma solo una pratica costante, in altri casi il problema è rappresentato dal mancato rispetto degli accordi lavorativi, soprattutto per quello che riguarda il lavoro domenicale e la turnazione.

“È un problema sia in Esselunga sia in Coop. Per contratto dovrebbe esserci una pausa di undici ore tra un turno e l’altro, ma capita sempre più spesso che un lavoratore sia in turno fino alle 22, e poi ricominci il giorno dopo alle 6,30. Se il sindacato protesta presso l’azienda, ti viene risposto che il dipendente era d’accordo. È come quando ti chiedono di venire al lavoro per sole due ore: certo, nessuno ti obbliga, ma la lista dei buoni e dei cattivi è sempre lì a ricordarti cosa è meglio per te». Anche dalla Uil confermano la stessa situazione, in particolare per quello che riguarda Esselunga. «Oggi le cose sono migliorate rispetto a qualche anno fa, grazie anche alla denuncia di lavoratori coraggiosi. Ma il sistema resta intatto», dice Bruno Pilo della Uiltucs. «Va tutto bene finché non richiedi cose che ti spettano di diritto: se lo fai, finisci inevitabilmente nel libro nero. L’azienda vuole solo gente fidelizzata, che non crei problemi in nessun modo. E a quanto pare, i diritti sono ancora un problema». Le cifre del part-time sono indicative per capire il rapporto che si instaura tra lavoratore ed azienda nella Gdo: solo il 10 per cento lo sceglie volontariamente, il resto è imposto dalle aziende, che si assicurano così un’ampia flessibilità e un maggiore potere sul lavoratore, perché è più facile chiedere straordinari e domeniche a chi ha uno stipendio minimo. Dove è possibile, le aziende cercano l’esternalizzazione dei servizi, soprattutto nella logistica: a Scandicci (Firenze), il magazzino Coop è stato affidato a una cooperativa esterna. Qui la gente lavora anche dodici ore di seguito, con paghe orarie che sono la metà di quelle interne, e con un’incidenza degli infortuni ormai mensile. «Coop ed Esselunga sono molto brave a creare facciate ben spendibili, sia sul commercio equo e solidale sia sulla tutela dei diritti dei lavoratori delle ditte produttrici estere, o a fare campagne con l’Unicef contro il lavoro minorile. Poi in azienda, dove non si vede, la realtà è ben altra», conclude Taddia.
Il controsenso di cui non parlano né Caprotti di Esselunga né Tassinari, il presidente di Coop Italia, è tutto qua: difendere il consumatore significa sì proteggere il suo potere d’acquisto, ma all’origine, non alla fine. Non solo nel carrello della spesa, ma anche nel salario.






domenica 30 settembre 2007

Confcommercio rompe la trattativa sul rinnovo del contratto.

Il 25 del mese scorso, la Confcommercio ha rotto le trattative per il rinnovo del contratto nazionale del Terziario, che riguarda quasi 2 milioni di lavoratori.
La commissione sindacale, riunita a Roma dall‘associazione dei commercianti (che non ha firmato il protocollo del 23 luglio), in una nota “ha confermato all'unanimità che non esistono al momento spazi per proseguire nella trattativa”.
“I timori di Confcommercio - ha spiegato il suo presidente, Francesco Rivolta - si sono concretizzati nel protocollo. A partire dall'abolizione dello scalone concordato solo con il sindacato - anche se gli aumenti che inevitabilmente ne deriveranno cadranno su imprese e lavoratori attivi - per arrivare al mercato del lavoro, ammortizzatori e competitività”. La rottura del negoziato viene inoltre argomentata con il costo del lavoro (incrementato dalla piattaforma del 9%) che le imprese “sono costrette a sostenere per competere, e che non può essere considerato una variabile indipendente e non influente sul rinnovo del contratto”.
Immediata la replica delle segreterie nazionali Filcams Fisascat Uiltucs, le quali con un comunicato hanno denunciato “l’atteggiamento dilatorio e strumentale della Confcommercio che, con argomentazioni pretestuose, si è rifiutata di entrare nel merito delle richieste della piattaforma presentata dalle organizzazioni sindacali e ha posto come pregiudiziale una discussione sugli avvisi comuni (che molto probabilmente avrebbe voluto che il sindacato accettasse a scatola chiusa) da presentare al governo sul tema del mercato del lavoro“.
“Il confronto - prosegue il comunicato - sugli avvisi comuni in materia di apprendistato, contratti a termine e contratti di inserimento su cui ci eravamo lasciati a luglio, aveva prodotto un testo già quasi definito, anche se con alcune nostre precisazioni di merito. Se l’avviso comune sul mercato del lavoro non ha visto la luce, la responsabilità ricade tutta su Confcommercio che, a un certo punto, ha ritenuto di toglierlo dal tavolo negoziale, magari per “buttarla in politica” e avere poi più libertà per attaccare strumentalmente il governo e CGIL, CISL e UIL sul Protocollo del 23 luglio 2007“.
Le segreterie nazionale di Filcams, Fisascat e Uiltucs, prendendo atto che la Confcommercio teme il confronto di merito sui problemi, non avendo argomenti seri da opporre, hanno deciso di dare una risposta adeguata alla sua “arroganza”, proclamando “una giornata nazionale di sciopero (intero turno di lavoro) per SABATO 17 novembre (per chi lavora su sei giorni) e VENERDI’ 16 NOVEMBRE (per chi lavora sui cinque giorni) . Ulteriori iniziative e modalità, saranno definite nella riunione nazionale della delegazione trattante prevista per l’8 ottobre a Roma “

giovedì 20 settembre 2007

Si discute e si vota sul Protocollo sul "Welfare".

L’accordo sul Welfare, siglato il 23 luglio scorso, sarà sottoposto al giudizio di lavoratori e pensionati l’8, il 9 e il 10 ottobre, come stabilito con decisione unitaria delle tre organizzazioni sindacali. Non si tratta di un Referendum, bensì ci sarà un voto segreto e certificato, attraverso il quale si potrà esprimere la propria opinione sull’accordo. Il voto sarà preceduto da assemblee nei luoghi di lavoro, con le quali avviare un percorso di informazione e partecipazione. Poi l'intero Protocollo passerà all'esame del Parlamento, non si sa se nell’ambito della prossima Legge Finanziaria, o con un percorso legislativo a parte.
Di seguito ne indichiamo i punti più rilevanti.

Completamento della riforma previdenziale.
Superamento dello “scalone”, prevedendo nuovi requisiti per l’accesso al pensionamento di anzianità:
- dal 1° gennaio 2008 con 35 anni di contributi e 58 anni di età;
- dal 1° luglio 2009 al raggiungimento di una “quota” pari a 95 (la somma di età e contributi) con almeno 59 anni di età (60 anni di età e 35 di contributi o 59 anni di età e 36 di contributi);
- dal 1° gennaio 2011 al raggiungimento di una “quota” pari a 96, con almeno 60 anni di età (61 anni di età e 35 di contributi o 60 anni di età e 36 di contributi);
- dal 1° gennaio 2013 al raggiungimento di una “quota” pari a 97, con almeno 61 anni di età (62 anni di età e 35 di contributi o 61 anni di età e 36 di contributi).
In alternativa, rimane possibile l’accesso alla pensione di anzianità dopo i 40 anni di lavoro, a prescindere dall’età anagrafica.
- Lavori particolarmente “usuranti”. L’accordo prevede un anticipo di tre anni del requisito anagrafico per l’accesso alla pensione di anzianità con minimo 57 anni di età, per i lavoratori che abbiano svolto attività particolarmente usuranti per la metà della loro vita lavorativa, o per almeno 7 anni negli ultimi 10 anni.
- Per le donne è stata confermata l’età pensionabile, ai fini del pensionamento di vecchiaia, a 60 anni.
- Per i giovani, verranno rivisti i criteri e le modalità di revisione dei coefficienti di trasformazione per il calcolo della pensione col sistema contributivo, al fine di contrastare gli effetti negativi che la flessibilità e la discontinuità della carriera lavorativa potrebbe produrre al momento del pensionamento, salvaguardando un tasso di sostituzione netto minimo del 60% della retribuzione. Inoltre sarà possibile cumulare tutti i contributi maturati in qualsiasi gestione pensionistica per ottenere un’unica pensione.
- L’adeguamento delle pensioni al costo della vita è pieno (rivalutazione al 100%) anche per le fasce dal tre a cinque volte il trattamento minimo.
- Vengono incrementate le maggiorazioni sociali per i soggetti con pensione assistenziale (assegni sociali, invalidi civili, ciechi e sordomuti) con età pari o superiore a 70 anni, al fine di assicurare un reddito individuale mensile complessivo pari a 580 euro.

Ammortizzatori sociali.
Si avrà un aumento della durata della indennità di disoccupazione che verrà portata a 8 mesi per i lavoratori sino a 50 anni e a 12 mesi per i lavoratori con più di 50 anni. Aumenta anche l’importo della indennità, portata dal 50 al 60% per i primi 6 mesi, al 50% per il settimo e ottavo mese, al 40% per gli eventuali mesi successivi. Un aumento dell’entità e della durata dell’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti, che passerà dall’attuale 30% al 35% per i primi 120 giorni e al 40% per le successive giornate, sino ad una durata massima di 180 giorni. La copertura figurativa dei contributi previdenziali, è prevista per l’intero periodo di godimento dell’indennità e non più fino a 6 mesi per chi ha meno di 50 anni di età e 9 mesi per chi li supera.
Per quanto riguarda i giovani, una novità riguarda il riscatto del periodo di laurea a fini pensionistici, per il quale vengono previste condizioni più vantaggiose. Infatti, la rateizzazione del pagamento dei contributi viene estesa sino a 120 rate mensili e senza interessi (la legge in vigore prevede un massimo di 60 rate e un interesse del 2,5%).
- Creazione di un fondo di credito per i parasubordinati: potrà erogare un credito sino a 600 euro mensili per 12 mesi, ad interessi zero o molto basso, al fine di coprire eventuali periodi di inattività.
- Creazione di un fondo di microcredito per incentivare le attività innovative di giovani e donne, riprendendo l’esperienza del credito d’onore.
- Aumento dell’importo degli assegni di ricerca presso le Università.

Misure a sostegno della competitività.
Le retribuzioni erogate a titolo di premio di risultato dalla contrattazione di 2° livello, legate agli incrementi di produttività, godranno di sgravi fiscali per le imprese (sino al 25%) e per i lavoratori, ai quali è garantita la pensionabilità piena del premio di risultato (oggi non prevista).
Viene abolita la norma, contenuta in una legge del 1995, che prevedeva un ulteriore aggravio del costo per il lavoro straordinario a carico delle imprese.

Mercato del lavoro.
Il protocollo prevede una esplicita dichiarazione della centralità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato secondo quanto affermato dalle direttive europee, un riconoscimento esplicito del ruolo della contrattazione collettiva e vengono indicate misure per la stabilizzazione del lavoro.
In particolare per il lavoro a tempo parziale, sarà la sola contrattazione collettiva a definire clausole elastiche e flessibili; saranno incentivati i part-time “lunghi” e si stabilisce il diritto di precedenza in caso di posti a tempo pieno disponibili.
Per il contratto a termine, si fissa un tetto massimo di 36 mesi di durata, dopo i quali nuovi contratti a termine possono essere stipulati solo davanti alle Direzioni provinciali del lavoro e con l'assistenza sindacale.
Verrà cancellato il lavoro a chiamata e verrà istituito un tavolo di confronto con le parti sociali sullo staff leasing.


I tre segretari di CGIL, CISL e UIL si sono espressi favorevolmente sia sull’intesa, come era scontato, sia sull’esito della consultazione.
Luigi Angeletti, in una intervista al Messaggero del 12 settembre 2007, ha sottolineato che quell’ intesa migliora le condizioni delle persone e, se i suoi punti venissero abrogati, quelle condizioni peggiorerebbero: "Proprio perchè l’accordo di luglio migliora le loro posizioni, ritengo che ci sarà il consenso della gente. Quell’accordo aumenta le pensioni per i giovani e non era mai accaduto. Per la prima volta inoltre abbiamo ottenuto che sugli aumenti negoziati nei contratti aziendali si paghino meno tasse. Aggiungo che ogni accordo che si stipula tra governo e sindacati non è negoziabile“.
Guglielmo Epifani, rispondendo alla domanda: “Il sì della Cgil è un sì convinto?”, posta da Enrico Galantini, per La rassegna.it (11 settembre 2007), ha risposto: “Nel momento in cui abbiamo sottoscritto l’accordo, sia pure con una riserva su tre punti specifici di una parte di esso (Epifani si riferisce alle risorse insufficienti per il superamento dello scalone Maroni, all’estensione di alcune tipologie di flessibilità e alla detassazione degli straordinari), non c’è dubbio che il nostro è un sì. Un sì convinto perché la somma delle acquisizioni contenute nel protocollo è di gran lunga superiore a quei tre motivi di riserva. Basta pensare alle materie oggetto dell’intesa. È la prima volta, ad esempio, che confederazioni e sindacati dei pensionati contrattano un aumento delle pensioni, a partire da quelle che hanno storie contributive alle spalle e sono più basse. Fin dai tempi della Dini avevamo chiesto di indicizzare meglio l’andamento delle pensioni al costo della vita e il fatto di aver innalzato al 100 per cento la rivalutazione per le pensioni fino a 5 volte il minimo rappresenta una scelta che va in quella direzione.”
Non sono solo i pensionati a beneficiare dell’intesa di luglio: “C’è tutta la parte sull’aumento delle indennità di disoccupazione, che parla circa a due milioni di lavoratori, spesso quelli che non si vedono e non fanno notizia. E la pensionabilità piena di questa indennità, il che per alcune categorie, penso agli stagionali, può voler dire recuperare tre o quattro anni di pensione piena... Senza parlare poi del fatto che su un tema delicato, la trasformazione dei coefficienti del sistema contributivo, l’indicazione di non portare sotto il 60 per cento la pensione futura dei giovani di oggi rappresenta un’indicazione programmatica di assoluto valore.” Sul capitolo del mercato del lavoro il giudizio del Segretario della CGIL è più articolato: “Accanto a cose positive – il diritto di precedenza, l’abolizione del job on call, un istituto particolarmente odioso anche a livello simbolico – avremmo voluto (e io spero che siamo ancora in condizione di avere) una risposta più netta su alcuni punti: va bene limitare a tre anni il tempo determinato, ma le clausole scritte all’ultimo momento nell’accordo non sono coerenti con questo obiettivo… Manca tutto il pezzo della previdenza agricola, definita, pattuita e poi scomparsa. Anche su questo il presidente del Consiglio e il ministro del Lavoro hanno preso l’impegno di intervenire. Bisognerà chiarire la questione dello staff leasing, perché in apertura di confronto il governo aveva detto che sarebbe stato superato; la commissione lavora in questa logica? Resta invece aperta la questione delle causali del tempo determinato. Poi c’è il secondo livello di contrattazione: recuperiamo la decontribuzione oggi esistente negli accordi aziendali, si detassa una quota del salario variabile. Detto questo, il giudizio non può che essere positivo. Perché su quasi ogni punto c’è un avanzamento… Se i lavoratori e i pensionati votassero a maggioranza contro l’accordo, voterebbero contro se stessi.”
Raffaele Bonanni, ha spiegato l'accordo sul welfare del 23 luglio all'assemblea dei delegati della CISL di Padova dichiarando: "E' l'accordo piu' importante dell'ultimo ventennio e non solo perché irrompe nella scena sociale e politica caratterizzata purtroppo da litigi e polemiche. Invece, questo accordo e' concreto e si rivolge a milioni di lavoratori: dimostrano che si possono unire interessi, motivazioni e volontà seppure partendo da posizioni diverse. E' una risposta concreta alla mancata coesione del paese. Il dato piu' significativo di questa vicenda e' che spezza questa condizione di litigio continuo tra tutti".
Contraria al Protocollo, la FIOM che ha bocciato l’accordo, in particolare la soluzione per il superamento dello scalone Maroni e le norme su mercato del lavoro, contrattazione e competitività. Il suo segretario, Gianni Rinaldini, in una intervista al quotidiano Il Manifesto, ha dichiarato: “Noi abbiamo apprezzato parti del protocollo - gli aumenti delle pensioni basse e gli ammortizzatori sociali, finanziati con l'extragettito - mentre valutiamo negativamente che il superamento dello scalone di Maroni sia totalmente auto finanziato. Ad esempio, il ripristino delle 4 finestre per chi ha 40 anni di contributi è completamente pagato dalle pensioni di vecchiaia, si allunga l'età lavorativa per recuperare 4 miliardi di euro. C'è addirittura una clausola di salvaguardia: se nel 2010 i conti non saranno in regola, scatterà un ulteriore onere contributivo dello 0,10% che graverà su tutti i lavoratori. Dunque, quello 0,30% di oneri contributivi dell'ultima finanziaria non servivano a superare lo scalone, come fu detto, ma a ridurre il debito pubblico.” La FIOM comunque non farà campagna contro l’accordo.

venerdì 14 settembre 2007

COMMERCIO - NO ALLE APERTURE DOMENICALI PER RISPETTO DEI LAVORATORI.

Riportiamo, di seguito, il testo del comunicato dei sindacati del terziario di Cgil-Cisl-Uil del Veneto:

"L'acceso dibattito che si è aperto in questi giorni nel Veneto e Vicenza sulla vicenda della liberalizzazione delle aperture dei negozi di domenica e dei giorni festivi, merita una seria riflessione da parte di tutte le forze sociali e istituzionali, essendo questo un tema di grande rilevanza sociale e politica ancorché economica e, per certi versi, morale e religiosa.
Da una parte vi sono molte organizzazioni sociali e tra queste quelle dei lavoratori, fortemente contrarie all'aumento del numero delle aperture domenicali e festive e dall'altra vi è chi spinge per aprire tutti i giorni dell'anno.
Tra questi ultimi vi è la grande distribuzione (Auchan, Carrefour, Coin, ecc?), che ha intrapreso una chiara azione di pressione politica affinché gli organi istituzionali accolgano le loro richieste di liberalizzare le aperture.
Unico obiettivo della grande distribuzione è quello di realizzare da un lato il massimo profitto costi quel che costi a prescindere da valori, dai contesti sociali e da chi in queste catene distributive ci lavora, dall'altro quello di soffocare la piccola distribuzione al dettaglio che in questo modo non avrebbe nè le risorse né i mezzi per competere.
I lavoratori e le lavoratrici diventano dei numeri, che si devono adattare a tutto, ad orari e nastri lavorativi spesso pesanti fino a forme di assunzione precarie e perciò più ricattabili. Esempio eclatante è l'utilizzo di precari da parte di UPIM a Verona per tenere aperto il giorno di Pasqua cosi come ha già fatto il giorno di Natale.
In questo contesto far conciliare i tempi di vita con i tempi di lavoro da parte dei lavoratori e soprattutto da parte delle lavoratrici, magari mamme, come hanno denunciato le tante commesse di Vicenza, è cosa assai difficile.
Le domeniche e i giorni di festa sono per le famiglie un momento di socializzazione familiare e per superare forme di isolamento e di crescente individualismo, causa spesso di forme di degrado sociale.
La società del consumismo sfrenato viene assunta come unico valore da perseguire.
PER VENDERE DI PIÙ NON È NECESSARIO APRIRE I NEGOZI TUTTI I GIORNI DELL'ANNO.
Già oggi i negozi e, soprattutto i supermercati, sono aperti sei giorni su sette fino alle 21 della sera, proprio per venire incontro alle esigenze diversificate dei consumatori.
Così come quasi tutti gli uffici pubblici restano chiusi la domenica, giustamente, analogamente ci si può fermare nei giorni festivi nel comparto della distribuzione.
La crescita dei consumi non dipende dall'ampliamento delle aperture ma dall'aumento delle disponibilità economiche delle famiglie. E' necessario aumentare le pensioni e i salari dei lavoratori se si vuol risolvere i problemi della distribuzione. Negli ultimi cinque anni i salari italiani sono cresciuti meno di tutti i paesi europei e sono circa la metà rispetto a quelli dei tedeschi .
PER TUTTE QUESTE RAGIONE RITENIAMO CHE IL PROBLEMA DEGLI ACQUISTI DEBBA ESSERE AFFRONTATO DIVERSAMENTE DA COME PENSA DI FARE LA REGIONE VENETO ED IL SINDACO HULLWECK .
L'attuale legislazione consente deroghe alle chiusure per 12 giornate (4 natalizie + 8 durante l'anno). A queste si aggiungono ulteriori deroghe legate alle Città d'arte e Città turistiche.
PER QUESTO RITENIAMO NECESSARIO FERMARCI ALLE 12 GIORNATE.
Come FILCAMS CGIL, FISASCAT CISL, E UILTUCS UIL regionali e provinciali proponiamo di:
- avviare una vera discussione su cosa offrire alla gente in termini di impiego del tempo libero nelle città dal punto di vista culturale e ricreativo;
- confermare le attuali 12 deroghe alle chiusure domenicali;
- escludere le deroghe per le seguenti giornate: primo gennaio, Pasqua, venticinque aprile, primo maggio, due giugno, quindici agosto, Natale, S. Stefano;
- rivedere i concetti di Città d'arte e Città turistica, e che comunque anche in queste località non hanno senso deroghe per tutto l'anno;
- prevedere forme contrattuali collettive di turnazione del presidio domenicale da parte dei lavoratori e delle lavoratrici senza discriminazioni nei loro confronti ( oggi le nuove assunzioni non hanno alcuna maggiorazione per lavoro domenicale );
- rivedere i piani di rilascio delle licenze da parte degli Enti Locali e la loro distribuzione sul territorio.
Le forti prese di posizione dei giorni scorsi da parte di CONFCOMMERCIO e CONFESERCENTI evidenziano come la tesi della liberalizzazione indiscriminata che la regione Veneto vuole adottare non è condivisa nemmeno dai datori di lavoro. E' solo la grande distribuzione, in particolare quella straniera molto presente nella nostra realtà, a sostenere e a volere concretizzare tale obiettivo da molti non condiviso.
PER IL BENE DI TUTTI FERMIAMOCI A 12 DOMENICHE ALL'ANNO.
Ogni forzatura può solo provocare ulteriori lacerazioni sociali di cui non ne abbiamo assoluto bisogno".

Vicenza, 2 aprile 2007

lunedì 28 maggio 2007

Fondi Pensione, una voce fuori dal coro.

A dimostrazione che la posizione del nostro Blog sul tema del TFR non è isolata, vi invitiamo ad ascoltare l'intervista che su questo argomento ha rilasciato Giuseppe Altamore, giornalista di Famiglia Cristiana e svolta per Arcoiris da Piero Ricca.
Partendo dal fatto che ad oggi, l'adesione ai fondi è molto scarsa, Altamore interviene sul meccanismo del silenzio assenso, definita una "trappola"; sulla scelta dei fondi pensione, giudicata rischiosa - non è detto che sia più vantaggiosa rispetto a quella di lasciare i propri soldi in azienda: "Dai dati forniti da Mediobanca, da quando esistono i fondi comuni di investimento, cioè dal 1984 ad oggi, i rendimenti non sono stati strabilianti, anzi molti risparmatiori hanno perso e hanno perso anche parecchio. Tanto che, il professor Beppe Scienza, che è un docente di matematica, nel suo libro Il Risparmio Tradito, ha dimostrato conti alla mano che se uno avesse fatto da sè, avesse investito da sè semplicemente nei Bot, avrebbe quadagnato molto di più che non investendo nei fondi comuni di investimento."
Il consiglio che offre, ve lo lasciamo ascoltare direttamente dalla sua voce:

Intervista a Giuseppe Altamore
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Di seguito il sito, molto interessante, del Professor Beppe Scienza:

Il Risparmio Tradito
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giovedì 24 maggio 2007

Pensioni: non ci siamo proprio!

Venerdì 18 maggio, a Mirafiori, si è svolto uno sciopero di due ore, proclamato sulle pensioni e particolarmente riuscito. Nel documento della assemblea preparatoria, i lavoratori richiedevano a Cgil/Cisl/Uil che, a fronte del perdurare delle posizioni espresse sino ad oggi dal Governo, si costruisca da subito la più ampia mobilitazione attraverso lo sciopero generale. Come sappiamo dai giornali, la concertazione tra Governo e organizzazioni sindacali, si è bloccata proprio sul terreno difficile della abolizione dello scalone e della revisione dei coefficienti di calcolo.
Su questo tema si è espresso anche il Direttivo della Filcams Cgil del Trentino, con un documento, approvato all'unanimità, che di seguito pubblichiamo:

PENSIONI: NON CI SIAMO PROPRIO.
DICHIARIAMO LO SCIOPERO GENERALE!!

Il Ministro del Tesoro ha minacciato il sindacato: o accettate i tagli alle pensioni, oppure i tagli ci saranno lo stesso, sulla base di quanto già deciso dal governo Berlusconi.

Il Ministro del Lavoro ha proposto di peggiorare i coefficienti di calcolo delle pensioni per i più giovani e di trasformare lo scalone, cioè l'aumento a 60 anni dell’età pensionistica, previsto dalla legge Maroni per il 1° gennaio 2008, in una serie di “scalini” che però portano allo stesso risultato: 62 anni di età minima per andare in pensione, a partire dal 2014!

Il governo si è impegnato, prima delle elezioni, a superare lo scalone che innalza l’età pensionabile. Con la finanziaria ben 5 miliardi di euro sono stati presi dalle tasche delle lavoratrici e dei lavoratori con l’aumento dei contributi pensionistici.
A questo punto non ci sono scuse: sulle pensioni le lavoratrici e i lavoratori hanno già dato e ora devono solo ricevere. Chiediamo:

1. la totale abolizione dello scalone, il mantenimento dell’età di pensionamento a 57 anni con 35 di contributi, senza alcun taglio dei coefficienti di calcolo delle pensioni;

2. il miglioramento delle pensioni più basse e del trattamento pensionistico per le nuove generazioni, che si vedranno le pensioni falcidiate dalla precarietà del lavoro e dal sistema contributivo;

3. la separazione totale della previdenza dall’assistenza, che deve essere posta a carico delle tasse di tutti i cittadini e non solo dei lavoratori;

4. la lotta agli sprechi, ai privilegi, a partire da quelli dei politici, al lavoro nero e all’evasione fiscale e contributiva, che sono mezzi concreti e giusti per finanziare il miglioramento del sistema pensionistico.

Il governo cerca di prendere tempo e di trascinare la trattativa per imporre al sindacato un accordo capestro. Bisogna fermare questo disegno e il modo per farlo è lo sciopero generale.
La Filcams Cgil del Trentino avvierà una capillare campagna di assemblee e si attiverà perchè si raccolgano le firme, si pronuncino le lavoratrici e i lavoratori. Il mondo del lavoro non è più disposto ad accettare tagli e sacrifici sulle pensioni e sullo stato sociale.


IL Comitato Direttivo della Filcams Cgil del Trentino

Trento, 23 maggio 2007

mercoledì 16 maggio 2007

Il commercio è per l’Uomo e non l’Uomo per il commercio!

Pubblichiamo volentieri la lettera al Cardinale Tettamanzi sul tema delle aperture commerciali domenicali, scritta da Giovanni Gazzo, Segretario Generale della UilTuCS Lombardia.

Caro Cardinale,

abbiamo ascoltato con attenzione il Suo discorso all’assemblea dei commerciati del giorno 19 novembre in corso Venezia, alla quale abbiamo partecipato come invitati.
Siamo rimasti particolarmente colpiti dalla chiarezza con la quale ha detto che “il commercio è per l’Uomo e non l’Uomo per il commercio”, invocando la restituzione della Domenica alla sfera religiosa, sociale, famigliare e culturale.
Operiamo nel settore del commercio fin dai primi anni settanta e Le possiamo assicurare che gli orari di apertura e chiusura dei negozi sono stati notevolmente ampliati e sostanzialmente liberalizzati dal lunedì al sabato, talchè l’apertura domenicale e nei giorni festivi infrasettimanali risulta un di più particolarmente pesante per i numerosi addetti di questo settore e delle loro famiglie, l’apertura domenicale.
In molte vie e piazze di Milano tale apertura è consentita addirittura tutte le domeniche dell’anno, generando una metamorfosi psicosociale tanto discutibile quanto presuntuosamente rivendicata come modernità da forze carenti di visione d’insieme e di senso della misura, sempre pronte a denunciare carenze di servizio, anche quando ciò è palesemente falso, se per servizio non s’intende qualcosa di indeterminato e illimitato di cui beneficiano le grandi aziende, ma non certo i consumatori, i piccoli commercianti, le lavoratrici e i lavoratori, le famiglie.
Le organizzazioni sindacali di categoria non hanno mai assunto posizioni corporative, benché la chiusura serale alle ore 22 sia già particolarmente onerosa e tale tuttavia da garantire un adeguato servizio a tutte le fasce della popolazione senza bisogno dell’apertura domenicale dei negozi.
Apertura, per altro, tradizionalmente assicurata nel mese di dicembre e oltre, in coincidenza con il Santo Natale e la riscossione della tredicesima mensilità.
È possibile discutere costruttivamente di questo con qualche istituzione non prevenuta?
O ci dobbiamo rassegnare ad un sistema di convivenza dominato da una concezione commerciale fine a se stessa, al di fuori della quale rimangono solo spazi residuali?
La ringraziamo per l’attenzione e rispettosamente La salutiamo.

martedì 1 maggio 2007

Riprendiamoci la festa!

Riceviamo da Mario Iacobelli, membro del Direttivo Regionale della Filcams CGIL del Lazio, un contributo su un tema importantissimo: il lavoro domenicale. Lo pubblichiamo volentieri:

La Domenica è festa...... Per TUTTI!

Questa non vuole essere un'affermazione che ha un significato corporativo, ma vuole porre un problema molto sentito e ridiscutere il concetto di servizio tenendo conto delle caratteristiche dello stesso.
Appare evidente che se è differibile fare la spesa domenicale ed i giorni festivi, diventa discutibile il fatto che centinaia di migliaia di lavoratori del settore, siano costretti a rinunciare alla propria vita familiare e personale per assecondare modelli di servizio che necessiterebbero di una attenta valutazione sulle ricadute socioeconomiche in assenza di un'attenta programmazione.
Il peso su questa categoria di lavoratori non è sostenibile, in quanto da anni è serva di un concetto che la vede al centro di continue mutazioni e la costringe a farsi carico di tutti i limiti di una visione del servizio commerciale surrogato delle esigenze del tempo libero altrui.
Troppo spesso deve sottostare impotente alle scelte di amministrazioni locali che poco fanno per rendere la città vivibile per tutti.
Con estrema facilità si chiede a questa categoria di lavoratori sacrifici che ad altre categorie maggiormente tutelate, non viene chiesto, fidando sul fatto che la precarietà e l'assenza di diritti impediscono a questi lavoratori di rivendicare diritti e tutele.
Concetti come ORARI di VITA ed ORARI di LAVORO vanno coniugati con i servizi complessivi offerti dalla città. Non ci vogliamo esimere dal valutare le esigenze di un servizio commerciale attento ai problemi della cittadinanza,ma non vogliamo che sulla nostra vita continuino a pesare scelte irriguardose dei nostri legittimi ed indifferibili diritti quali il riconoscimento per i lavoratori della funzione sociale e culturale della Domenica in tutti i settori dove la fruibilità del servizio possa ritenersi differibile .
Occorre aprire un serio tavolo di confronto con gli enti locali, affinché le tematiche del commercio trovino adeguata coniugazione in una programmazione che nell'ambito della legge Bersani era prevista ma che non è stata mai attuata.
In troppi, anche nel sindacato, affrontano questo problema da consumatori e poco da sindacalisti, la mia vuole essere una provocazione, in quanto su questa materia c'è un ingiustificato silenzio, mentre i problemi da affrontare non sono ulteriormente derogabili.

Mario Iacobelli


sabato 28 aprile 2007

Studio dell’Eurispes: i salari italiani tra i più bassi d'Europa!

Alla fine del mese di marzo, è stato pubblicato uno studio dell’ Eurispes, il famoso Istituto di Studi Politici Economici e Sociali, sulle dinamiche retributive nei Paesi europei. Da tale indagine risulta che il salario lordo dei lavoratori italiani è quello che è cresciuto di meno (salario medio annuo nel 2004, euro 22.053); dietro di noi ci sono solo Spagna (con euro 19.828), Grecia (con euro 17.360) e Portogallo (con euro 12.969). Molto diversa la situazione dei salari in Danimarca (salario medio annuo nel 2004, euro 42.484), Germania (con euro 41.046), Gran Bretagna (con euro 39.765), Olanda (con euro 37.026). Siamo superati persino dal Belgio (con euro 35.578) e Irlanda (con euro 30.170).
L’Eurispes prende in considerazione anche la crescita media delle retribuzioni in Europa, nell’arco temporale che va dal 2000 al 2005, è pari al 18%. In Italia, citiamo dal testo ufficiale, “i lavoratori dell’ Industria e dei Servizi (con esclusione della Pubblica Amministrazione) hanno visto la propria busta paga crescere solo del 13,7. Solo la Germania e la Svezia (paesi che comunque hanno livelli retributivi ben più alti dei nostri) segnalano una crescita inferiore.” Invece, nei paesi dove le retribuzioni sono più basse la crescita media è più alta: in Spagna abbiamo una crescita del + 17,2 e in Portogallo + 16,6. I valori più alti si hanno in Gran Bretagna (con + 27,8), Norvegia (con + 25,6) e Olanda (con + 21,3).
Soltanto nel confronto tra i salari degli uomini con quello delle donne nei diversi paesi europei, l’ Italia ha una posizione dignitosa, figurando al quarto posto.
Altra tabella interessante è quella relativa alla comparazione dei salari netti, ricordando che “si tratta sempre del salario medio dei lavoratori dipendenti della Industria e dei Servizi, secondo i dati elaborati dall’Eurostat e dall’Ocse e forniti a quelle agenzie dagli istituti nazionali di statistica tra i quali, per l’Italia, l’Istat.” Nel 2004 il salario medio netto di un lavoratore italiano era pari ad euro 15.597, nel 2005 euro 15.009 e nel 2006 euro 16.242.
Riportiamo di seguito una delle tabelle di comparazione, valida per l’anno 2006:

Gran Bretagna.........................euro 28.007
Olanda....................................euro 23.289
Germania................................euro 21.235
Irlanda....................................euro 21.112
Finlandia................................euro 19.890
Franci.................................... euro 19.731
Belgio.....................................euro 19.729
Danimarca..............................euro 18.735
Spagna...................................euro 17.412
Grecia.....................................euro 16.720
Italia....................................euro 16.242
Portogallo...............................euro 12.969


Si nota subito (citiamo dal documento) la posizione infima del lavoratore italiano, penultimo nel 2006 fra tutti i paesi europei, giacchè solo i portoghesi si accontentano di retribuzioni inferiori alle nostre. Si può notare anche che negli ultimi tre anni la nostra posizione è peggiorata: nel 2004 e nel 2005 le nostre retribuzioni nette erano superiori a quelle greche e appena inferiori a quelle spagnole: solo nel 2006 vi è stato il sorpasso della Grecia. Il motivo di questa perdita di posizioni è facilmente spiegabile: di fronte ad una crescita dei salari in Europa del 15% in tre anni (con punte di oltre il 30% come in Gran Bretagna ed in Grecia) il salario italiano è cresciuto solo del 4,1%, la crescita più contenuta fra tutti i paesi del vecchio continente. L’inflazione infine ha giocato un ruolo non trascurabile nel deprimere i salari dei nostri lavoratori in termini di potere d’acquisto. Essa infatti negli ultimi quattro anni, e cioè dal 2002, ha avuto un andamento decisamente superiore alla crescita dei salari lordi calcolati in euro, riducendo ulteriormente il valore reale dei salari netti in termini di potere di acquisto.”
Insomma i salari italiani sono tra gli ultimi in Europa! Viceversa, balziamo al primo posto per le retribuzioni dei dirigenti d’azienda e dei parlamentari: le più alte d’Europa!
Sono stati resi pubblici, negli stessi giorni, anche i confronti tra gli stipendi dei parlamentari italiani e quelli dei loro colleghi dell’Unione Europea. Anche in questa classifica, l’Italia è in testa: un parlamentare italiano prende tre volte tanto (16.000 euro) di un parlamentare francese (meno di 7.000 euro al mese, compresa un'indennità per l'alloggio). E cosa dire del costo della politica in Italia? Secondo i dati pubblicati da due senatori dell’Ulivo, Cesare Salvi e Massimo Villone, nel loro libro dossier “Il costo della democrazia”, Mondadori 2005, e resi noti su varie testate giornalistiche, i funzionari eletti (78 rappresentanti del Parlamento Europeo, 951 membri del Parlamento, 1.118 rappresentanti delle amministrazioni regionali, 3.039 consiglieri provinciali, 119.046 consiglieri comunali , 12.541 consiglieri circoscrizionali, 12.820 consiglieri delle comunità montane, 278.296 consulenti a pagamento , per un totale di circa 430.000 stipendi) e i finanziamenti ai partiti politici verrebbero a costare almeno un miliardo e ottantacinque milioni di euro all'anno.
Anche gli stipendi dei manager italiani sono stati resi noti. E mentre in Italia, come abbiamo visto, gli stipendi dei lavoratori aumentano ogni anno del 2,7%, gli stipendi dei dirigenti d’azienda aumentano ogni anno del 17%, otto volte l’inflazione! Lo stipendio medio dei primi 108 manager italiani è di 3.500.000 di euro all’anno! Quando poi lasciano una azienda, anche se l’hanno lasciata in crisi, se ne vanno con liquidazioni da favola. E cosa dire dei profitti delle imprese: nel 2005 le prime 40 aziende italiane hanno accumulato profitti per 30 miliardi di euro.
Nonostante ciò i poteri forti del nostro paese, come Banca d’Italia e Confindustria, continuano a parlare di moderare l’aumento dei salari e chiedono ulteriori sacrifici ai lavoratori. Un altro dato significativo: i lavoratori ricevono il 40% del reddito ma sopportano il 70% del carico fiscale. Fino a quando dovremo sopportare questa ingiustizia? Per quanto ancora dovremo vivere in questo mondo alla rovescia? Metà delle famiglie italiane vive con meno di 1.300 euro al mese (dati Istat), un terzo di esse dichiara che arriva a stento a farcela . In questo anno di governo Prodi, nella vita concreta di queste persone non è cambiato nulla di sostanziale. Da uno studio, a cura di Aldo Carra, comparso sul sito della Rassegna Sindacale nel febbraio del 2007, risulta che la finanziaria, per i redditi sotto i 1.500 euro, ha prodotto aumenti irrilevanti . Aumenti che peraltro, sono stati annullati dall’aumento dei ticket sanitari, del bollo auto, delle addizionali regionali e comunali, e dall’aumento del carovita che negli ultimi anni si è andato sempre più accentuandosi.
Tutti questi dati ci confermano che in Italia, esiste una questione salariale sempre più urgente ed ineludibile. E le organizzazioni sindacali dovrebbero farsene carico, a partire proprio dalle richieste retributive sia nei contratti nazionali che in quelli aziendali. E, per quanto riguarda la nostra categoria, cosa dire della piattaforma presentata dalle organizzazioni sindacali per il rinnovo del nostro contratto nazionale, scaduto dal 31.12.2006, e che prevede una richiesta di soli 78 euro per il biennio 2007/2008, da dividersi in due tranche? Ma su questo argomento, torneremo prossimamente con una analisi più dettagliata e con proposte concrete di iniziativa da discutere insieme.

martedì 17 aprile 2007

Polemica sul rapporto Doing Business

Riceviamo da Mario Iacobelli, membro del Direttivo Regionale della Filcams CGIL del Lazio, un articolo, apparso sul sito www.rassegna.it, dedicato al rapporto Doing Business. Lo pubblichiamo volentieri:

Banca mondiale sott'accusa: promuove
i paesi dove i lavoratori non hanno diritti.


di Davide Orecchio

Da pochi giorni è uscito Doing Business, il Rapporto più diffuso e importante della Banca mondiale. Misura la competitività e l'apertura all'impresa di 175 paesi, dando voti che pesano, bocciando i cattivi e promuovendo i buoni. Ma Doing Business ha una visione un po' distorta della realtà: paesi dove si può licenziare senza giusta causa, dove i sindacati sono fuori legge e gli orari di lavoro altissimi corrispondono all'identikit del "best performer" e del "business friendly". In molti paesi in via di sviluppo la Banca mondiale usa le indicazioni di Doing Business per premere sui governi affinché deregolamentino il mercato del lavoro. C'è di che protestare. Il sindacato l'ha fatto...

La competitività di un paese si misura anche in base a quanto è facile, nel suo mercato del lavoro, licenziare una persona. Se poi il paese in questione non ha salari minimi garantiti per legge (o li ha sufficientemente bassi) , né forme di protezione sociale che "ostacolano" la libertà d'impresa, allora sicuramente finirà nella lista dei buoni. Al contrario, se la tua legislazione prevede un orario minimo di lavoro inferiore alle 66 ore settimanali, allora non sei un buon posto dove fare soldi. Sono alcune delle amenità che si possono leggere tra le righe del Rapporto Doing Business , pubblicato lo scorso 6 settembre dalla Banca Mondiale nella sua versione per il 2007. Ma bisogna saper leggere e interpretare. I sindacalisti dell'Icftu (la Cisl internazionale) lo hanno fatto - lo fanno da anni - e accusano l'istituto di Washington di promuovere con simili studi la deregolamentazione del mercato del lavoro, specialmente nei paesi in via di sviluppo. Doing Business è il best seller della Banca mondiale, uno dei rapporti più letti e diffusi tra quelli che sforna l'istituto presieduto da Paul Wolfowitz. Dunque uno degli strumenti che influenzano maggiormente le politiche economiche e sociali di quegli stati che più dipendono dai cordoni finanziari del Fondo monetario internazionale - organismo gemello, come ormai tutti sanno, della Bm. Il Rapporto (alla sua quarta edizione annuale) è stato realizzato esaminando le economie di 175 paesi e se ne evince che nel 2006 sono state adottate 213 riforme, in 112 paesi, affinché le imprese si adeguassero ai requisiti legali e amministrativi in meno tempo, con meno costi e più agevolmente. Secondo gli analisti del Dipartimento per lo sviluppo del settore privato (l'ufficio della Bm che elabora il Rapporto), i paesi migliori per fare impresa sono Singapore, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Canada, Hong Kong, Regno Unito, Danimarca, e via scendendo fino a un imbarazzante 82esimo posto in classifica: quello occupato dall'Italia, retrocessa qui sotto dal già poco illustre 69esimo assegnato dal rapporto precedente. Rispetto al 2006, invece, alcuni paesi hanno fatto grandi passi avanti, come la Georgia che passa dal 112mo al 37mo posto, il Messico che sale dal 62mo al 42mo, e la Romania, dalla 71ma alla 49ma posizione. Ogni paese ha la sua pagella stilata sulla base di 10 criteri, dalla facilità nell'avvio di un'impresa alla pressione fiscale alla facilità nel commercio con l'estero. Però tra questi - ecco il punto dolente - è compreso anche l'indicatore sull'impiego delle forze di lavoro, capitolo dedicato a misurare la flessibilità del mercato del lavoro, la difficoltà ad assumere, la rigidità degli orari, il costo del lavoro e "le difficoltà e i costi legati al licenziamento di manodopera in esubero". E' anche in base a questi criteri che un paese ottiene un voto alto o basso. E si tratta - accusa la Icftu - di una vera e propria istigazione a sabotare le tutele sociali, dal momento che in almeno sette casi documentati dal sindacato (Bolivia, Colombia, Ecuador, Lituania, Nepal, Romania e Sudafrica), gli operatori della Banca mondiale avrebbero raccomandato Doing Business ai governi locali come fonte d'ispirazione per le riforme delle relazioni industriali. "Il rapporto considera come ostacoli all'impresa un'ampia gamma di istituti giuslavoristici", sottolinea in un paper dettagliato Peter Bakvis, direttore della sede di Washington dell'Icftu. Non sono "business friendly" i paesi che "stabiliscono per legge una settimana lavorativa inferiore alle 66 ore - evidenzia Bakvis -, o che istituiscono un salario minimo superiore al 25% del Pil procapite, oppure se limitano in qualche modo il ricorso al part time - magari garantendo una protezione sociale completa", o ancora se prevedono una qualche procedura a tutela dei lavoratori in caso di licenziamento. Si arriva a risultati paradossali: ad esempio sul sito web del rapporto - evidenzia ancora Bakvis - alla voce "assumi e licenzia" il best performer, ossia il paese che si aggiudica la palma d'oro, sono le Isole Palau, minuscolo arcipelago dell'oceano Pacifico ignoto ai più, la cui caratteristica principale è di non essere membro dell'Oil (l'Organizzazione internazionale del lavoro), oltre a consentire un orario massimo di lavoro pari a 24 ore al giorno, una settimana lavorativa di sette giorni su sette, e dove - dulcis in fundo - un dipendente con 20 anni di anzianità non ha diritto neppure a un giorno di ferie l'anno (per inciso: l'anno scorso vinsero le isole Marshall). Fatto ancora più grave - accusa sempre il sindacato - è che Doing Business dà voti eccellenti a paesi che violano apertamente i princìpi e diritti del lavoro sanciti dall'Oil. Ad esempio l'anno scorso l'Arabia Saudita ha ottenuto il miglior voto possibile (ossia "0") alle due voci "difficoltà ad assumere" e "difficoltà a licenziare", nonostante in questo paese i sindacati siano fuori legge, la contrattazione collettiva proibita e alle donne siano vietate molte occupazioni. Ci sono altri esempi, e la Icftu li segnala tutti, ricordando anche che molte sedi locali della Bm stanno usando Doing Business e in particolare i suoi capitoli sul lavoro per promuovere presso i governi una deregolamentazione molto simile allo stato di natura. I rappresentanti dell'Icftu hanno chiesto che dal Rapporto fossero espunti gli indicatori incriminati, senza ottenere risposta. Inoltre il sindacato sottolinea un comportamento ambivalente dell'istituto, dal momento che tutti i suoi presidenti hanno sostenuto pubblicamente la campagna per i diritti dell'Oil e le sue convenzioni internazionali. "La Banca mondiale dovrebbe fare chiarezza - ha dichiarato il segretario generale dell'Icftu Guy Ryder -. Se ritiene sinceramente che i principi fondamentali del lavoro stabiliti dall'Oil siano benefici per lo sviluppo, non può andare in giro elogiando come best performer nelle relazioni industriali paesi che non fanno parte dell'Oil e non ne rispettano gli standard più elementari". Ryder non ha dubbi: "la Banca mondiale dovrebbe ritirare la competenza sul mercato del lavoro al dipartimento che elabora il Rapporto, e smettere di usare Doing Business come piattaforma per le sue proposte di riforma". Alla fine della giostra sorge il dubbio che quell'82esimo posto assegnato all'Italia non sia poi così disdicevole. Incombe l'eterna domanda: è meglio arrivare primi barando o ultimi con fair play? Chi non sa la risposta, non la vada a cercare in Micronesia. ( www.rassegna.it, 8 settembre 2006 )

mercoledì 21 marzo 2007

Ragioni di un Blog.

Lavoroincoop, dove è soprattutto la soggettività del "io lavoro" quella che vogliamo rappresentare e valorizzare, nasce da una esigenza precisa. Quella di riempire un vuoto di informazione, sempre più intollerabile; e offrire uno spazio di confronto libero, accessibile, non censurabile e non censurante.
Per noi il deficit di informazione, infatti, è sempre portatore di un deficit di partecipazione e, dunque, di democrazia. Le bacheche sindacali sono sempre più povere di comunicati, prese di posizione sulla realtà aziendale e sui vari aspetti della vita politica ed economica del nostro Paese. Nelle assemblee, sempre più spezzettate e diradate, si ha sempre più la sensazione di fare discussioni inutili, in quanto le decisioni sono state già prese e decise in altri luoghi. C’è una grande e grave mancanza di coinvolgimento della base nei processi decisionali.
Le forme tradizionali della rappresentanza sono importanti, ma non bastano più.
Occorre sorreggerle con elementi di partecipazione, occorre creare un "sistema di connessioni" . L'espressione non è nostra, appartiene a Paul Ginsborg, autore di un interessante e opportuno libro: La democrazia che non c'è, Einaudi 2006, nel quale sostiene, appunto, che la “democrazia che non c’è in questo momento é la democrazia della partecipazione dei cittadini“.
Questo Blog vuole essere parte integrante di quel sistema di connessioni che dia la possibilità , a tutti i lavoratori della distribuzione cooperativa, di condividere informazioni, confrontarsi, collegarsi tra loro, e diventare protagonisti attivi della vita sindacale e non spettatori ininfluenti.
L’ invito che vi rivolgiamo non è solo di leggere il materiale pubblicato, bensì quello di arricchirlo con i vostri commenti ed i vostri contributi.
L’augurio è quello di essere in molti a farlo.

martedì 20 marzo 2007

Quando un medico ascolta il personale di un ipermercato.

Si crede che il progresso tecnologico possa liberare l’uomo dalla alienazione dal lavoro. Quel tempo non è ancora arrivato. Ne è una testimonianza un libro molto interessante: Diario di un medico del lavoro. La sofferenza al lavoro, Le Cherche midi - Témoignage, Paris, 2006, di Dorothée Ramaut, uscito da poco in Francia, suscitando molto interesse, interviste televisive e numerose recensioni; citiamo ad esempio quella su L’Humanité, Le Monde e Le Figaro. Ci auguriamo che venga tradotto presto in Italia e che, anche nel nostro paese, medici del lavoro coraggiosi ed indipendenti compiano analoghe “imprese“. Viviamo in una società nella quale ciò che non è detto non esiste, può esistere solo quello che può essere nominato, scritto nei giornali o comparire in televisione. Ecco perché rompere il silenzio è essenziale e liberare le parole della gente che soffre, per dirla con l’autrice, diventa importante.
Il libro della Dottoressa Ramaut affronta gli impatti e gli effetti "collaterali " di una organizzazione aziendale, quale quella di un ipermercato parigino. Da giugno del 2000 a marzo del 2006, ha tenuto fedelmente un diario delle sue consultazioni quale medico del lavoro, e offre una testimonianza straordinaria delle “sofferenze” subite dai salariati. E’ stato calcolato che in Francia il costo economico dei danni alla salute, della sicurezza e dei maltrattamenti da lavoro sia tra i 45 e i 70 miliardi di euro ogni anno.
I casi che presenta, rilevabili per ora solo dalle interviste rilasciate e dalla lettura di qualche brano in lingua originale, sembrano casi limite, lontani dalle dinamiche interne al “mondo coop”. Tuttavia, il fatto che succedano in un paese molto avanzato quale la Francia, e nel settore anch’ esso moderno della grande distribuzione commerciale, rendono la divulgazione del libro un dovere di informazione ineludibile.
Di seguito riportiamo l’intervista che Dorothée Ramaut ha rilasciato al quotidiano Il Manifesto:

LA SOLITUDINE DELLE CASSIERE

di Anna Maria Merlo

Parigi - Quando Engels ha scritto sulla situazione della classe operaia in Inghilterra, nel 1848, c'erano più domestici che lavoratori delle manifatture, ma aveva capito che la novità era qui.
Così oggi, anche se i dipendenti degli ipermercati o dei call center non sono maggioranza, è in questi luoghi che si configurano le condizioni di lavoro che il nuovo capitalismo vorrebbe generalizzare.
Pressione delle gerarchie, sui lavoratori precari e su se stesse, solitudine del lavoratore a causa della progressiva debolezza sindacale, paura di perdere il posto: questa situazione viene interiorizzata, si ripercuote sulla salute. Per questo lo sguardo di un medico del lavoro può oggi aiutare a capire come si configurano le nuove sofferenze sul lavoro.
Dorothée Ramaut da vent'anni è medico del lavoro in un ipermercato della periferia parigina.
Ha appena pubblicato un diario della sua esperienza, Journal d'un médecin du travail. Témoignage (Le Cherche Midi, 174 pagine, 10 euro), dal giugno 2000 al marzo 2006, che sta sollevando in Francia grande interesse.

Come si è resa conto che i lavoratori, anche i quadri, vivevano la sofferenza che lei descrive?

Non me ne sono resa conto subito. L'azienda, quando qualcuno non stava bene, aveva sempre la stessa giustificazione: è un cattivo elemento. Ma quando ho avuto di fronte a me uno di questi cattivi elementi, che lavorava nel supermercato da più di 15 anni, mi sono interrogata, mi sono detta : ma qui c'è qualcosa che non va. Il problema è che i quadri sono inseriti in un sistema dove sono contemporaneamente protagonisti e vittime.

Lei sottolinea la solitudine dei lavoratori.

Non c'è più solidarietà, ma regna la paura. I sindacati sono paralizzati, perché sono costituiti da esseri umani, che vivono nella paura. Tutti sanno cosa succede quando qualcuno sta male, lo sanno i quadri dirigenti, lo sanno i clienti dell'ipermercato, che osservano la situazione, lo sanno le istanze esterne, come l'ispettorato del lavoro, i controllori della Sécurité sociale, i comitati di igiene e sicurezza. Ma nessuno dice niente.
La gente accetta il sistema perché non può fare altrimenti.
Nelle imprese della grande distribuzione c'è molto precariato, molto subappalto e molti sono alla ricerca di un posto. Le persone si sentono rivali tra loro, le solidarietà non funzionano più, le strategie professionali e di difesa non funzionano più. I più deboli diventano vittime, ma la mia esperienza mi ha mostrato molti casi in cui uno che si credeva forte, che era un capo, da un giorno all'altro si ritrova debole a sua volta, senza capire perché.

Le malattie che queste persone sviluppano sono soprattutto psichiche o anche fisiche?

Ci sono malattie fisiche, mal di schiena, mal di testa, ipertensioni arteriose, eczemi, psoriasi, fino all'infarto, con la morte come conclusione, ulcere, diarree. E' difficile quantificare.
Poi ci sono le malattie mentali, depressione, incubi, persone che si svalorizzano, che perdono la stima di sé, cosa che può arrivare fino al suicidio. E' l'identità dell'individuo che viene toccata e questo lascia sempre delle tracce.
Queste persone dall'identità demolita, demoliscono a loro volta quella degli altri.
La sera, a casa, si sfogano sulla famiglia.
C'è da chiedersi come fanno a trasmettere dei valori ai figli, quale valore del lavoro possano tramandare. Ma ogni volta che ho osservato un caso di malattia del genere, la direzione mi ha sempre risposto: non è il lavoro, è perché il dipendente ha dei problemi privati. Questa risposta evita così di fare un'analisi del lavoro.
Anche stamattina, la stessa cosa: un'impiegata con problemi di salute, «è la menopausa» mi ha detto il capo. Tutto viene addebitato all'individuo, evitando così di rimettere in causa il lavoro. Mentre tutti gli studi dicono che quando il lavoro non va ci sono ripercussioni sulla vita privata, mentre il contrario non è vero, anzi.
Almeno c'è il lavoro, si dice quando ci sono problemi privati.
Un tempo i lavoratori erano fisicamente stanchi. Ma c'era lo spazio per recuperare. Oggi non è più possibile, quando il lavoratore è ferito nell'identità personale.
Nel mio supermercato i dipendenti non vengono criticati per sbagli fatti sul lavoro, cosa che può essere compresa, ma toccati nell'identità : a chi ha più di 35 anni, chiamati «italiano», «portoghese», invece che per nome, «di gente come te sono piene le pattumiere», ecc. E' destabilizzante.

Lei scrive che i medici del lavoro hanno oggi la responsabilità di denunciare la situazione, per non farsi accusare, come è stato con l'amianto, di aver chiuso gli occhi?

E' la stessa cosa. Noi sappiamo, ma poi non riusciamo a farci ascoltare. Mai viene chiesto il parere a un medico del lavoro nello spazio pubblico. Per questo ho scritto questo libro. Ma non pensavo che avesse un impatto del genere: la situazione è quindi più grave di quello che pensassi.

Eppure le leggi di protezione dei lavoratori esistono, come mai non funzionano?

Certo, l'arsenale giuridico esiste. Ma quando un lavoratore denuncia un caso di molestia sul lavoro, è molto difficile trovare delle testimonianze. Siamo sempre di fronte alla stessa questione: domina la paura, le solidarietà sono scomparse, conta solo la redditività, i profitti a breve. La riscossa deve partire a livello di ogni impresa, secondo me, per ritroavre il rispetto reciproco, per ristabilire il dialogo.
Anche le imprese devono capire che l'essere umano deve essere rimesso al centro. Oggi in Francia si parla molto di rimettere al lavoro le persone di più di 50 anni.
Ma se le trattano così, nessuno accetterà. Io sono costretta a consigliare a qualcuno che soffre di andarsene, di licenziarsi. Quando c'è stata la rivolta delle banlieues, l'anno scorso, è stato detto: è colpa del fatto che non hanno lavoro.
Ma se poi, sul lavoro, c'è un'estrema violenza, come se ne esce?


(Il manifesto, 11 ottobre 2006)

giovedì 15 marzo 2007

Parte la concertazione tra governo e sindacati.

Il 13 marzo, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Enrico Letta, ha dichiarato che i tavoli per la concertazione con le parti sociali, partiranno il prossimo 22 marzo. Sono varie le materie oggetto di confronto: previdenza, ammortizzatori sociali, rilancio della economia, riforma della pubblica amministrazione. Chi volesse leggere il documento unitario nella sua interezza, può trovarlo al seguente: link
Invece, quello che sottoponiamo alla vostra attenzione, è una dichiarazione che Guglielmo Epifani ha rilasciato a Fabio Fazio, nella trasmissione televisiva Che tempo che fa, del 25 febbraio scorso. Riporto testualmente: "Abbiamo fatto un documento unitario per mettere a punto, con le altre organizzazioni sindacali, le questioni da affrontare con il governo. Su questo documento apriremo assemblee in tutti i luoghi di lavoro”. Avete letto bene: "apriremo assemblee in tutti i luoghi di lavoro". Come mai nel nostro settore, l'indicazione del segretario generale del più fortre sindacato italiano, non è stata rispettata? Prima della legge finanziaria, fu già firmato un memorandum sulle pensioni, senza alcuna consultazione tra i lavoratori, ora la storia si ripete nuovamente. Nell'Ipercoop da dove nasce questo blog, quello di Roma Casilino, di assemblee non ce ne sono state, e la nostra bacheca sindacale non contiene neppure un documento informativo su questa vicenda. Inoltre, non ci risulta che in altre punti vendita si siano organizzati degli incontri con i lavoratori su tali argomenti così importanti e delicati. Ci piacerebbe molto essere smentiti! Ed è per questo, che aspettiamo i vostri commenti.

sabato 10 marzo 2007

La previdenza integrativa, dubbi ed incertezze.

Entro il 30 giugno del 2007, saremo chiamati a decidere se trattenere il nostro TFR in azienda, oppure se destinarlo alla previdenza complementare, nel nostro caso il Fondo Negoziale "Previcooper".
In merito abbiamo dei dubbi e delle incertezze che vorrmmo condividere e discutere con voi.
Innanzitutto, va proposta una correzione terminologica. Si parla di previdenza "integrativa", ma integrativo significa un qualcosa che si aggiunge, un qualcosa in più. In realtà, poichè il TFR siamo invitati ad investirlo nei fondi, non riceveremo più, al termine della nostra vita lavorativa, un gruzzoletto da portare a casa (una somma che vale 50/60.000 euro) così come può fare ora chi va in pensione con il sistema pre Dini (legge del 1995). Ci sembra una perdita economica di non poco conto. e che ci porta dunque a proporre il termine più appropriato di previdenza "compensativa", poichè sostituisce, compensa un qualcosa che non avremo più, visto che il TFR ci servirà per completare una pensione che viene ridotta.
Infatti, mentre col vecchio sistema, quello retributivo, si matura una pensione che corrisponde a circa il 70-80% della retribuzione, col nuovo sistema, quello contributivo, la pensione sarà all’incirca del 45-50% dello stipendio. Una perdita economica di grande rilievo.
Di fronte a un corso della storia che dovrebbe vedere migliorate le condizioni materiali delle persone che lavorano, constatiamo, con amarezza, che è accaduto l’opposto: quelle condizioni sono peggiorate!
E dunque, eccoci ora di fronte ad una scelta ineludibile: è giusto, conviene iscriverci ai Fondi Pensione?
Per prima cosa analizziamo i dati relativi ai rendimenti. Ci invitano, infatti, ad aderire ai fondi pensione dicendoci che rendono di più del TFR.
Quest’ultimo, ogni anno vale, garantito dalla legge, una percentuale fissa dell'1,5 % alla quale si somma il 75% del tasso d'inflazione corrente, arrivando ad una cifra intorno al 3%. Apparentemente, sembra un rendimento modesto. Facciamo un confronto, comparando i fondi pensione chiusi e il TFR nel quadriennio 2000-2003:

dal 1/1/2000 al 31/12/2000:
Fondi chiusi +3,55 ___TFR +3,54
dal 1/1/2001 al 31/12/2001:
Fondi chiusi -0.50 ___TFR +3,20
dal 1/1/2002 al 31/12/2002:
Fondi chiusi -2.80 ___TFR +3.50
dal 1/1/2003 al 31/12/2003:
Fondi chiusi +5,00 ___TFR +3,20

Totale: Fondi chiusi +5,25
---- TFR +13,44

Riassumendo, i fondi pensione chiusi, nel quadriennio in esame, hanno avuto un rendimento medio intorno al 5,25%, contro un 13,44% offerto dal TFR. Praticamente, se avessimo investito il nostro TFR nei fondi pensione di categoria avremmo avuto un rendimento inferiore dell' 8,19% - senza considerare che dalle cifre relative ai fondi vanno tolti i costi di gestione, costi che il TFR non ha, essi sono infatti pari a zero.
A sconsigliare di fatto l'investimento del TFR nei Fondi, è lo stesso Professore Luigi Scimia, attuale presidente della COVIP (Ente di vigilanza sui fondi pensione) nonchè ex presidente del Fondo Pensione dei lavoratori della BNL.
Riportiamo una sua dichiarazione, rilasciata al Corriere della Sera nel 2004:

"Il Tfr batte i fondi pensione"

di Marro Enrico

<< ... Tra gli elementi decisivi che i lavoratori dovranno valutare c'è quello del rendimento. Quello del Tfr è certo (1,5% più il 75% dell'inflazione), quello dei fondi dipende dall'andamento dei mercati. Secondo i dati illustrati da Scimia, nei primi otto mesi del 2004, il rendimento medio dei fondi pensione negoziali (quelli istituiti da accordi tra aziende e sindacati) è stato del 2,3%, leggermente sopra la rivalutazione del Tfr, pari al 2,1%. I fondi aperti (offerti da banche e assicurazioni) hanno invece reso in media l' 1,8% (il 2,3% quelli con investimenti prevalentemente obbligazionari, l' 1,4% quelli azionari).
"Estendendo l'orizzonte temporale all'ultimo quinquiennio - ha aggiunto il presidente della Covip - il confronto con il Tfr è tuttavia abbastanza critico anche per le gravi turbolenze che hanno accompagnato i mercati finanziari". Dal 1999 al 2004 i fondi negoziali hanno reso il 14,2%, quelli aperti il 5,2% mentre il Tfr si è rivalutato del 17,9%. >> Corriere della Sera PENSIONI, 16/10/2004 pag. 29

Dunque, può accadere che in un singolo anno le performance dei Fondi chiusi possano superare quelle del TFR. Ma se aumentiamo l'arco temporale, i dati attestano il contrario: è il TFR che sta rendendo di più, così come si vede anche da questi dati, desunti dall'ultima relazione annuale della Commissione di vigilanza sui fondi pensione e pubblicati dal giornale La Repubblica nel gennaio del 2007:

rendimenti ultimi 6 anni (2000-2005):

Fondi Negoziali 17,2
Fondi Aperti 3,7
Tfr 18,8

Va sottolineato , e questo vale anche per i numeri citati da Scimia, che occorre scorporare, dai dati relativi ai Fondi, i costi di gestione dei medesimi; operazione che aumenterebbe ancora di più la differenza tra i rendimenti. Prima conclusione: l'incertezza dei rendimenti dimostra che la scelta di affidare alla borsa il proprio futuro pensionistico è quantomeno azzardata e che l'unico interesse certo è quello delle Banche, delle Assicurazioni , dei gestori dei Fondi stessi e dei mercati finanziari, sempre più alla ricerca di danaro (l’ammontare complessivo delle liquidazioni vale circa 19 miliardi di euro all‘anno!).

Un altro ambito di perplessità, riguarda il quadro normativo nel quale si è costituita ed opera la previdenza compensativa.
Infatti, se si legge il contratto del Fondo Previcooper con attenzione, si troverà scritto, e questo vale per tutti i fondi negoziali, che il "fondo non dà garanzie di rendimento". Ci invitano ad iscriverci, ma non ci garantiscono neanche un minimo di rendimento, neanche uguale a quello del TFR! Perchè il sindacato e le forze politiche della sinistra, che dovrebbero dunque avere a cuore le condizioni materiali dei lavoratori, non si sono battuti per avere Fondi con garanzie di rendimento minime? Perchè? Perchè, per esempio, non si è scelto di aumentare il rendimento del TFR, di 2 o 3 punti? Lo Stato non si accollerebbe i costi di compensazione per le aziende che perdono il TFR (600 milioni di euro l'anno ) e le liquidazioni avrebbero una maggiore rivalutazione nel tempo, garantita per legge. Perché non si è impedito che la tassazione sul TFR passasse, dal 2000 al 2006, dal 12% circa (grazie ad una detrazione delle allora 600.000 lire per ogni anno di accantonamento) all’attuale 23%? Nell’attuale parlamento ci sono iniziative legislative volte a diminuire, in futuro, il prelievo fiscale sul TFR, perchè non si sostengono con forza? Perché?
E perchè tanto tempismo legislativo quando si tratta di toccare gli interessi delle categorie più deboli e più povere, e tanta lentezza quando si tratta di colpire gli interessi delle categorie più forti e più ricche? Un esempio: nella campagna elettorale scorsa, è trascorso ormai un anno, sia i dirigenti sindacali che i dirigenti politici della sinistra gridavano allo scandalo nel vedere le rendite finanziarie tassate al 12,50, proponendo che venissero portate almeno al 20%. Questa indicazione è pure scritta nel programma di governo. Perchè, a distanza di una anno, questo provvedimento legislativo non arriva? Perchè le rendite finanziarie sono ancora tassate al 12,50, mentre, quando lo Stato tassa i cittadini più poveri, per pagare gli interessi sul debito pubblico, preleva il 23% sui redditi da lavoro? Perchè? Perchè i sindacati e i partiti della sinistra non protestano più, non gridano più allo scandalo?
E perchè non si richiede a gran voce la reintroduzione della penalizzazione per il reato di falso in bilancio, reato che è stato depenalizzato dal governo Berlusconi nella passata legislatura? Perchè?
Non vogliamo ricordare il caso della americana Enron (negli USA, il falso in bilancio è punito con pene che prevedono la reclusione sino a 25 anni di prigione), né l‘Inghilterra, dove i fondi sono più diffusi e dove i fallimenti e le crisi sono continui e ripetute con la perdita, in certi casi, non solo della pensione ma anche del capitale versato. Ci basta quello che sta succedendo in Italia. Innanzitutto, va menzionato il fallimento della Sicilcasse, che ha azzerato il fondo pensione di migliaia di bancari, i quali forse riusciranno a recuperare il 15 od il 25% del versato.
Il fondo della BNL è in stato pre-fallimentare.
Alla fine di gennaio apprendiamo che “è stato scoperto un ammanco di bilancio per oltre 40 milioni di euro nella cassa IBI, il fondo pensione degli ex dipendenti dell’Istituto Bancario Italiano, incorporato in Cariplo nel 1991, ora nel gruppo Intesa-Sanpaolo. L’ammanco è superiore alla metà dell’intero patrimonio del fondo, a cui è iscritto oggi circa un migliaio di dipendenti del gruppo”. (dal Il Sole24ore del 31/01/2007, Cassa IBI, al via le indagini della COVIP.
Non più di in mese fa, si scopre il crack del Fondo Pensione del Teatro Carlo Felice di Genova.
Da Il Sole24ore del 17/02/2007, Fondi, quel crack a Genova: “Si è salvato dal crack del fondo pensione solo chi, giunto alla fine della sua carriera lavorativa, ha riscattato tutto il capitale prima del 2002. Dopo il diluvio, Oggi gli oltre 300 tra pensionati e lavoratori attivi del Teatro Carlo Felice di Genova non sanno se riusciranno a recuperare quanto versato nel Fondo di previdenza integrativa a favore del personale dell’Ente Autonomo Teatro Comunale dell’ Opera di Genova. Il Fondo costituito nel 1971 con un accordo tra i sindacati e l’Ente Teatro è andato in liquidazione nel maggio del 2004 - il primo in Italia - con un deficit, secondo il conteggio del commissario liquidatore Ermanno Martinetto, di quasi 9 milioni di euro. E ormai a dare una risposta a questi lavoratori e pensionati saranno solo le carte bollate e la moneta”.
E cosa dire del pesante conflitto di interessi che investe i Fondi: il 96% delle SGR - società di gestione del risparmio, coloro cioè che andranno a gestire i soldi che confluiranno nei fondi pensione - sono di proprietà di Banche ed Assicurazioni!
La gestione del Fondo Previcooper, ad esempio, è in mano all’ Unipol, la compagnia assicuratrice che nel 2005, l’anno dei furbetti del quartiere, vide due suoi dirigenti, Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti, dimissionari al cda Unipol del 9 gennaio 2005, al centro di una inchiesta da parte della magistratura per “appropriazione indebita, ricettazione ed associazione a delinquere”. Corriere della sera 05.01.2006.
“Dai quaranta ai cinquanta milioni di euro. Tanto avrebbero ottenuto il presidente di Unipol Giovanni Consorte e il suo vice Ivano Sacchetti, negli anni, con operazioni di acquisto e repentina vendita di titoli alla Bpl di Giampiero Fiorani e all'Hopa di Emilio Gnutti che poi avrebbero girato loro parte delle plusvalenze per ricompensarli.” La repubblica 27/12/2005.
Quanti altri fallimenti di Fondi Pensione, quante altre indagini della magistratura dobbiamo aspettare per arrivare a questa seconda conclusione: il quadro normativo nel quale si trovano ad operare i Fondi - depenalizzazione del falso in bilancio e conflitto di interessi - non è affatto rassicurante.
Così come poco rassicurante è lo scenario internazionale nel quale i mercati finanziari operano e al quale sono molto sensibili. E anche qui non c’è bisogno di ricordare il crollo della Borsa avvenuto con l’11 settembre. Basta citare la giornata nera del 27 febbraio di quest’anno, nella quale col crollo della Borsa di Shangai, che ha trascinato quella americana e di riflesso quella europea, si sono bruciati circa 8oo miliardi di euro in un giorno solo - in Europa si sono bruciati sui mercati azionari 272 miliardi di euro di capitalizzazione.
Il mercato finanziario è un mercato veramente globale, utilizza le reti telematiche per gli scambi e le operazioni, è un mercato transnazionale dove un capitale può essere riciclato anche più volte al giorno, con poche regole e privo di trasparenza. Trae i suoi utili dalla speculazione, cioè gioca sulle differenze dei cambi o delle quotazioni azionarie tra un mercato e l’altro. Tale mercato è concentrato in poche mani, più o meno 200 operatori a livello mondiale. Ebbene gli operatori più forti sono i gestori dei fondi di pensione americani ed anglosassoni (i Mutual Funds) che gestiscono fondi per un valore di 7.000 miliardi di dollari, cioè 12 milioni di miliardi di lire - il sistema pensionistico americano è privato, cioè gestito da enti finanziari che investono enormi somme sui mercati finanziari azionari od obbligazionari e dove la speculazione è potente: ad esempio, in poche ore avendo puntato sulla svalutazione della moneta argentina ha costretto il governo a spendere il 10 % del PIL del paese per sostenerla, portando l’Argentina al crack finanziario a tutti noto. E’ un mercato anche dove si rischia molto:si dice che George Soros, uno dei maggiori finanzieri del mondo (il quale fu oggetto di indagini per speculazioni finanziarie, sia da parte di organi ufficiali americani che di due procure della repubblica italiane ) abbia perso 2 dei 10 miliardi di dollari che possiede, nella speculazione sul rublo.
E’ vero che la creazione, nel 1998, dell’unione monetaria europea ha tra i suoi scopi la creazione di un sistema di scambi stabili e la tutela delle monete deboli, tuttavia il recente crollo della Borsa, sopra ricordato, dimostra che il mercato europeo non è affatto al riparo dalle grosse speculazioni finanziarie mondiali, che si muovono in un quadro sostanzialmente privo di controlli.
Ci dicono che i Fondi Pensione sono il secondo pilastro della nostra futura pensione. Ebbene, nello scenario appena descritto, come si può pensare e credere che questo pilastro poggi su basi solide? Noi crediamo il contrario! E consigliamo le lavoratrici ed i lavoratori di non aderire ai Fondi e di chiedere ai sindacati di cambiare strategia, di battersi per rafforzare la previdenza pubblica, battersi per aumentare il rendimento del TFR e per sostenere le iniziative legislative volte a diminuirne il prelievo fiscale.