martedì 17 aprile 2007

Polemica sul rapporto Doing Business

Riceviamo da Mario Iacobelli, membro del Direttivo Regionale della Filcams CGIL del Lazio, un articolo, apparso sul sito www.rassegna.it, dedicato al rapporto Doing Business. Lo pubblichiamo volentieri:

Banca mondiale sott'accusa: promuove
i paesi dove i lavoratori non hanno diritti.


di Davide Orecchio

Da pochi giorni è uscito Doing Business, il Rapporto più diffuso e importante della Banca mondiale. Misura la competitività e l'apertura all'impresa di 175 paesi, dando voti che pesano, bocciando i cattivi e promuovendo i buoni. Ma Doing Business ha una visione un po' distorta della realtà: paesi dove si può licenziare senza giusta causa, dove i sindacati sono fuori legge e gli orari di lavoro altissimi corrispondono all'identikit del "best performer" e del "business friendly". In molti paesi in via di sviluppo la Banca mondiale usa le indicazioni di Doing Business per premere sui governi affinché deregolamentino il mercato del lavoro. C'è di che protestare. Il sindacato l'ha fatto...

La competitività di un paese si misura anche in base a quanto è facile, nel suo mercato del lavoro, licenziare una persona. Se poi il paese in questione non ha salari minimi garantiti per legge (o li ha sufficientemente bassi) , né forme di protezione sociale che "ostacolano" la libertà d'impresa, allora sicuramente finirà nella lista dei buoni. Al contrario, se la tua legislazione prevede un orario minimo di lavoro inferiore alle 66 ore settimanali, allora non sei un buon posto dove fare soldi. Sono alcune delle amenità che si possono leggere tra le righe del Rapporto Doing Business , pubblicato lo scorso 6 settembre dalla Banca Mondiale nella sua versione per il 2007. Ma bisogna saper leggere e interpretare. I sindacalisti dell'Icftu (la Cisl internazionale) lo hanno fatto - lo fanno da anni - e accusano l'istituto di Washington di promuovere con simili studi la deregolamentazione del mercato del lavoro, specialmente nei paesi in via di sviluppo. Doing Business è il best seller della Banca mondiale, uno dei rapporti più letti e diffusi tra quelli che sforna l'istituto presieduto da Paul Wolfowitz. Dunque uno degli strumenti che influenzano maggiormente le politiche economiche e sociali di quegli stati che più dipendono dai cordoni finanziari del Fondo monetario internazionale - organismo gemello, come ormai tutti sanno, della Bm. Il Rapporto (alla sua quarta edizione annuale) è stato realizzato esaminando le economie di 175 paesi e se ne evince che nel 2006 sono state adottate 213 riforme, in 112 paesi, affinché le imprese si adeguassero ai requisiti legali e amministrativi in meno tempo, con meno costi e più agevolmente. Secondo gli analisti del Dipartimento per lo sviluppo del settore privato (l'ufficio della Bm che elabora il Rapporto), i paesi migliori per fare impresa sono Singapore, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Canada, Hong Kong, Regno Unito, Danimarca, e via scendendo fino a un imbarazzante 82esimo posto in classifica: quello occupato dall'Italia, retrocessa qui sotto dal già poco illustre 69esimo assegnato dal rapporto precedente. Rispetto al 2006, invece, alcuni paesi hanno fatto grandi passi avanti, come la Georgia che passa dal 112mo al 37mo posto, il Messico che sale dal 62mo al 42mo, e la Romania, dalla 71ma alla 49ma posizione. Ogni paese ha la sua pagella stilata sulla base di 10 criteri, dalla facilità nell'avvio di un'impresa alla pressione fiscale alla facilità nel commercio con l'estero. Però tra questi - ecco il punto dolente - è compreso anche l'indicatore sull'impiego delle forze di lavoro, capitolo dedicato a misurare la flessibilità del mercato del lavoro, la difficoltà ad assumere, la rigidità degli orari, il costo del lavoro e "le difficoltà e i costi legati al licenziamento di manodopera in esubero". E' anche in base a questi criteri che un paese ottiene un voto alto o basso. E si tratta - accusa la Icftu - di una vera e propria istigazione a sabotare le tutele sociali, dal momento che in almeno sette casi documentati dal sindacato (Bolivia, Colombia, Ecuador, Lituania, Nepal, Romania e Sudafrica), gli operatori della Banca mondiale avrebbero raccomandato Doing Business ai governi locali come fonte d'ispirazione per le riforme delle relazioni industriali. "Il rapporto considera come ostacoli all'impresa un'ampia gamma di istituti giuslavoristici", sottolinea in un paper dettagliato Peter Bakvis, direttore della sede di Washington dell'Icftu. Non sono "business friendly" i paesi che "stabiliscono per legge una settimana lavorativa inferiore alle 66 ore - evidenzia Bakvis -, o che istituiscono un salario minimo superiore al 25% del Pil procapite, oppure se limitano in qualche modo il ricorso al part time - magari garantendo una protezione sociale completa", o ancora se prevedono una qualche procedura a tutela dei lavoratori in caso di licenziamento. Si arriva a risultati paradossali: ad esempio sul sito web del rapporto - evidenzia ancora Bakvis - alla voce "assumi e licenzia" il best performer, ossia il paese che si aggiudica la palma d'oro, sono le Isole Palau, minuscolo arcipelago dell'oceano Pacifico ignoto ai più, la cui caratteristica principale è di non essere membro dell'Oil (l'Organizzazione internazionale del lavoro), oltre a consentire un orario massimo di lavoro pari a 24 ore al giorno, una settimana lavorativa di sette giorni su sette, e dove - dulcis in fundo - un dipendente con 20 anni di anzianità non ha diritto neppure a un giorno di ferie l'anno (per inciso: l'anno scorso vinsero le isole Marshall). Fatto ancora più grave - accusa sempre il sindacato - è che Doing Business dà voti eccellenti a paesi che violano apertamente i princìpi e diritti del lavoro sanciti dall'Oil. Ad esempio l'anno scorso l'Arabia Saudita ha ottenuto il miglior voto possibile (ossia "0") alle due voci "difficoltà ad assumere" e "difficoltà a licenziare", nonostante in questo paese i sindacati siano fuori legge, la contrattazione collettiva proibita e alle donne siano vietate molte occupazioni. Ci sono altri esempi, e la Icftu li segnala tutti, ricordando anche che molte sedi locali della Bm stanno usando Doing Business e in particolare i suoi capitoli sul lavoro per promuovere presso i governi una deregolamentazione molto simile allo stato di natura. I rappresentanti dell'Icftu hanno chiesto che dal Rapporto fossero espunti gli indicatori incriminati, senza ottenere risposta. Inoltre il sindacato sottolinea un comportamento ambivalente dell'istituto, dal momento che tutti i suoi presidenti hanno sostenuto pubblicamente la campagna per i diritti dell'Oil e le sue convenzioni internazionali. "La Banca mondiale dovrebbe fare chiarezza - ha dichiarato il segretario generale dell'Icftu Guy Ryder -. Se ritiene sinceramente che i principi fondamentali del lavoro stabiliti dall'Oil siano benefici per lo sviluppo, non può andare in giro elogiando come best performer nelle relazioni industriali paesi che non fanno parte dell'Oil e non ne rispettano gli standard più elementari". Ryder non ha dubbi: "la Banca mondiale dovrebbe ritirare la competenza sul mercato del lavoro al dipartimento che elabora il Rapporto, e smettere di usare Doing Business come piattaforma per le sue proposte di riforma". Alla fine della giostra sorge il dubbio che quell'82esimo posto assegnato all'Italia non sia poi così disdicevole. Incombe l'eterna domanda: è meglio arrivare primi barando o ultimi con fair play? Chi non sa la risposta, non la vada a cercare in Micronesia. ( www.rassegna.it, 8 settembre 2006 )

1 commento:

Anonimo ha detto...

Nel lavoro il costo e' direttamente proporzionale alla quantita' di diritti acquisiti.
Lottiamo per conservare i nostri diritti e costringiamo le aziende a
tagliare su altre voci, alla fine dello stipendio ci avanza sempre troppo mese.