sabato 28 aprile 2007

Studio dell’Eurispes: i salari italiani tra i più bassi d'Europa!

Alla fine del mese di marzo, è stato pubblicato uno studio dell’ Eurispes, il famoso Istituto di Studi Politici Economici e Sociali, sulle dinamiche retributive nei Paesi europei. Da tale indagine risulta che il salario lordo dei lavoratori italiani è quello che è cresciuto di meno (salario medio annuo nel 2004, euro 22.053); dietro di noi ci sono solo Spagna (con euro 19.828), Grecia (con euro 17.360) e Portogallo (con euro 12.969). Molto diversa la situazione dei salari in Danimarca (salario medio annuo nel 2004, euro 42.484), Germania (con euro 41.046), Gran Bretagna (con euro 39.765), Olanda (con euro 37.026). Siamo superati persino dal Belgio (con euro 35.578) e Irlanda (con euro 30.170).
L’Eurispes prende in considerazione anche la crescita media delle retribuzioni in Europa, nell’arco temporale che va dal 2000 al 2005, è pari al 18%. In Italia, citiamo dal testo ufficiale, “i lavoratori dell’ Industria e dei Servizi (con esclusione della Pubblica Amministrazione) hanno visto la propria busta paga crescere solo del 13,7. Solo la Germania e la Svezia (paesi che comunque hanno livelli retributivi ben più alti dei nostri) segnalano una crescita inferiore.” Invece, nei paesi dove le retribuzioni sono più basse la crescita media è più alta: in Spagna abbiamo una crescita del + 17,2 e in Portogallo + 16,6. I valori più alti si hanno in Gran Bretagna (con + 27,8), Norvegia (con + 25,6) e Olanda (con + 21,3).
Soltanto nel confronto tra i salari degli uomini con quello delle donne nei diversi paesi europei, l’ Italia ha una posizione dignitosa, figurando al quarto posto.
Altra tabella interessante è quella relativa alla comparazione dei salari netti, ricordando che “si tratta sempre del salario medio dei lavoratori dipendenti della Industria e dei Servizi, secondo i dati elaborati dall’Eurostat e dall’Ocse e forniti a quelle agenzie dagli istituti nazionali di statistica tra i quali, per l’Italia, l’Istat.” Nel 2004 il salario medio netto di un lavoratore italiano era pari ad euro 15.597, nel 2005 euro 15.009 e nel 2006 euro 16.242.
Riportiamo di seguito una delle tabelle di comparazione, valida per l’anno 2006:

Gran Bretagna.........................euro 28.007
Olanda....................................euro 23.289
Germania................................euro 21.235
Irlanda....................................euro 21.112
Finlandia................................euro 19.890
Franci.................................... euro 19.731
Belgio.....................................euro 19.729
Danimarca..............................euro 18.735
Spagna...................................euro 17.412
Grecia.....................................euro 16.720
Italia....................................euro 16.242
Portogallo...............................euro 12.969


Si nota subito (citiamo dal documento) la posizione infima del lavoratore italiano, penultimo nel 2006 fra tutti i paesi europei, giacchè solo i portoghesi si accontentano di retribuzioni inferiori alle nostre. Si può notare anche che negli ultimi tre anni la nostra posizione è peggiorata: nel 2004 e nel 2005 le nostre retribuzioni nette erano superiori a quelle greche e appena inferiori a quelle spagnole: solo nel 2006 vi è stato il sorpasso della Grecia. Il motivo di questa perdita di posizioni è facilmente spiegabile: di fronte ad una crescita dei salari in Europa del 15% in tre anni (con punte di oltre il 30% come in Gran Bretagna ed in Grecia) il salario italiano è cresciuto solo del 4,1%, la crescita più contenuta fra tutti i paesi del vecchio continente. L’inflazione infine ha giocato un ruolo non trascurabile nel deprimere i salari dei nostri lavoratori in termini di potere d’acquisto. Essa infatti negli ultimi quattro anni, e cioè dal 2002, ha avuto un andamento decisamente superiore alla crescita dei salari lordi calcolati in euro, riducendo ulteriormente il valore reale dei salari netti in termini di potere di acquisto.”
Insomma i salari italiani sono tra gli ultimi in Europa! Viceversa, balziamo al primo posto per le retribuzioni dei dirigenti d’azienda e dei parlamentari: le più alte d’Europa!
Sono stati resi pubblici, negli stessi giorni, anche i confronti tra gli stipendi dei parlamentari italiani e quelli dei loro colleghi dell’Unione Europea. Anche in questa classifica, l’Italia è in testa: un parlamentare italiano prende tre volte tanto (16.000 euro) di un parlamentare francese (meno di 7.000 euro al mese, compresa un'indennità per l'alloggio). E cosa dire del costo della politica in Italia? Secondo i dati pubblicati da due senatori dell’Ulivo, Cesare Salvi e Massimo Villone, nel loro libro dossier “Il costo della democrazia”, Mondadori 2005, e resi noti su varie testate giornalistiche, i funzionari eletti (78 rappresentanti del Parlamento Europeo, 951 membri del Parlamento, 1.118 rappresentanti delle amministrazioni regionali, 3.039 consiglieri provinciali, 119.046 consiglieri comunali , 12.541 consiglieri circoscrizionali, 12.820 consiglieri delle comunità montane, 278.296 consulenti a pagamento , per un totale di circa 430.000 stipendi) e i finanziamenti ai partiti politici verrebbero a costare almeno un miliardo e ottantacinque milioni di euro all'anno.
Anche gli stipendi dei manager italiani sono stati resi noti. E mentre in Italia, come abbiamo visto, gli stipendi dei lavoratori aumentano ogni anno del 2,7%, gli stipendi dei dirigenti d’azienda aumentano ogni anno del 17%, otto volte l’inflazione! Lo stipendio medio dei primi 108 manager italiani è di 3.500.000 di euro all’anno! Quando poi lasciano una azienda, anche se l’hanno lasciata in crisi, se ne vanno con liquidazioni da favola. E cosa dire dei profitti delle imprese: nel 2005 le prime 40 aziende italiane hanno accumulato profitti per 30 miliardi di euro.
Nonostante ciò i poteri forti del nostro paese, come Banca d’Italia e Confindustria, continuano a parlare di moderare l’aumento dei salari e chiedono ulteriori sacrifici ai lavoratori. Un altro dato significativo: i lavoratori ricevono il 40% del reddito ma sopportano il 70% del carico fiscale. Fino a quando dovremo sopportare questa ingiustizia? Per quanto ancora dovremo vivere in questo mondo alla rovescia? Metà delle famiglie italiane vive con meno di 1.300 euro al mese (dati Istat), un terzo di esse dichiara che arriva a stento a farcela . In questo anno di governo Prodi, nella vita concreta di queste persone non è cambiato nulla di sostanziale. Da uno studio, a cura di Aldo Carra, comparso sul sito della Rassegna Sindacale nel febbraio del 2007, risulta che la finanziaria, per i redditi sotto i 1.500 euro, ha prodotto aumenti irrilevanti . Aumenti che peraltro, sono stati annullati dall’aumento dei ticket sanitari, del bollo auto, delle addizionali regionali e comunali, e dall’aumento del carovita che negli ultimi anni si è andato sempre più accentuandosi.
Tutti questi dati ci confermano che in Italia, esiste una questione salariale sempre più urgente ed ineludibile. E le organizzazioni sindacali dovrebbero farsene carico, a partire proprio dalle richieste retributive sia nei contratti nazionali che in quelli aziendali. E, per quanto riguarda la nostra categoria, cosa dire della piattaforma presentata dalle organizzazioni sindacali per il rinnovo del nostro contratto nazionale, scaduto dal 31.12.2006, e che prevede una richiesta di soli 78 euro per il biennio 2007/2008, da dividersi in due tranche? Ma su questo argomento, torneremo prossimamente con una analisi più dettagliata e con proposte concrete di iniziativa da discutere insieme.

martedì 17 aprile 2007

Polemica sul rapporto Doing Business

Riceviamo da Mario Iacobelli, membro del Direttivo Regionale della Filcams CGIL del Lazio, un articolo, apparso sul sito www.rassegna.it, dedicato al rapporto Doing Business. Lo pubblichiamo volentieri:

Banca mondiale sott'accusa: promuove
i paesi dove i lavoratori non hanno diritti.


di Davide Orecchio

Da pochi giorni è uscito Doing Business, il Rapporto più diffuso e importante della Banca mondiale. Misura la competitività e l'apertura all'impresa di 175 paesi, dando voti che pesano, bocciando i cattivi e promuovendo i buoni. Ma Doing Business ha una visione un po' distorta della realtà: paesi dove si può licenziare senza giusta causa, dove i sindacati sono fuori legge e gli orari di lavoro altissimi corrispondono all'identikit del "best performer" e del "business friendly". In molti paesi in via di sviluppo la Banca mondiale usa le indicazioni di Doing Business per premere sui governi affinché deregolamentino il mercato del lavoro. C'è di che protestare. Il sindacato l'ha fatto...

La competitività di un paese si misura anche in base a quanto è facile, nel suo mercato del lavoro, licenziare una persona. Se poi il paese in questione non ha salari minimi garantiti per legge (o li ha sufficientemente bassi) , né forme di protezione sociale che "ostacolano" la libertà d'impresa, allora sicuramente finirà nella lista dei buoni. Al contrario, se la tua legislazione prevede un orario minimo di lavoro inferiore alle 66 ore settimanali, allora non sei un buon posto dove fare soldi. Sono alcune delle amenità che si possono leggere tra le righe del Rapporto Doing Business , pubblicato lo scorso 6 settembre dalla Banca Mondiale nella sua versione per il 2007. Ma bisogna saper leggere e interpretare. I sindacalisti dell'Icftu (la Cisl internazionale) lo hanno fatto - lo fanno da anni - e accusano l'istituto di Washington di promuovere con simili studi la deregolamentazione del mercato del lavoro, specialmente nei paesi in via di sviluppo. Doing Business è il best seller della Banca mondiale, uno dei rapporti più letti e diffusi tra quelli che sforna l'istituto presieduto da Paul Wolfowitz. Dunque uno degli strumenti che influenzano maggiormente le politiche economiche e sociali di quegli stati che più dipendono dai cordoni finanziari del Fondo monetario internazionale - organismo gemello, come ormai tutti sanno, della Bm. Il Rapporto (alla sua quarta edizione annuale) è stato realizzato esaminando le economie di 175 paesi e se ne evince che nel 2006 sono state adottate 213 riforme, in 112 paesi, affinché le imprese si adeguassero ai requisiti legali e amministrativi in meno tempo, con meno costi e più agevolmente. Secondo gli analisti del Dipartimento per lo sviluppo del settore privato (l'ufficio della Bm che elabora il Rapporto), i paesi migliori per fare impresa sono Singapore, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Canada, Hong Kong, Regno Unito, Danimarca, e via scendendo fino a un imbarazzante 82esimo posto in classifica: quello occupato dall'Italia, retrocessa qui sotto dal già poco illustre 69esimo assegnato dal rapporto precedente. Rispetto al 2006, invece, alcuni paesi hanno fatto grandi passi avanti, come la Georgia che passa dal 112mo al 37mo posto, il Messico che sale dal 62mo al 42mo, e la Romania, dalla 71ma alla 49ma posizione. Ogni paese ha la sua pagella stilata sulla base di 10 criteri, dalla facilità nell'avvio di un'impresa alla pressione fiscale alla facilità nel commercio con l'estero. Però tra questi - ecco il punto dolente - è compreso anche l'indicatore sull'impiego delle forze di lavoro, capitolo dedicato a misurare la flessibilità del mercato del lavoro, la difficoltà ad assumere, la rigidità degli orari, il costo del lavoro e "le difficoltà e i costi legati al licenziamento di manodopera in esubero". E' anche in base a questi criteri che un paese ottiene un voto alto o basso. E si tratta - accusa la Icftu - di una vera e propria istigazione a sabotare le tutele sociali, dal momento che in almeno sette casi documentati dal sindacato (Bolivia, Colombia, Ecuador, Lituania, Nepal, Romania e Sudafrica), gli operatori della Banca mondiale avrebbero raccomandato Doing Business ai governi locali come fonte d'ispirazione per le riforme delle relazioni industriali. "Il rapporto considera come ostacoli all'impresa un'ampia gamma di istituti giuslavoristici", sottolinea in un paper dettagliato Peter Bakvis, direttore della sede di Washington dell'Icftu. Non sono "business friendly" i paesi che "stabiliscono per legge una settimana lavorativa inferiore alle 66 ore - evidenzia Bakvis -, o che istituiscono un salario minimo superiore al 25% del Pil procapite, oppure se limitano in qualche modo il ricorso al part time - magari garantendo una protezione sociale completa", o ancora se prevedono una qualche procedura a tutela dei lavoratori in caso di licenziamento. Si arriva a risultati paradossali: ad esempio sul sito web del rapporto - evidenzia ancora Bakvis - alla voce "assumi e licenzia" il best performer, ossia il paese che si aggiudica la palma d'oro, sono le Isole Palau, minuscolo arcipelago dell'oceano Pacifico ignoto ai più, la cui caratteristica principale è di non essere membro dell'Oil (l'Organizzazione internazionale del lavoro), oltre a consentire un orario massimo di lavoro pari a 24 ore al giorno, una settimana lavorativa di sette giorni su sette, e dove - dulcis in fundo - un dipendente con 20 anni di anzianità non ha diritto neppure a un giorno di ferie l'anno (per inciso: l'anno scorso vinsero le isole Marshall). Fatto ancora più grave - accusa sempre il sindacato - è che Doing Business dà voti eccellenti a paesi che violano apertamente i princìpi e diritti del lavoro sanciti dall'Oil. Ad esempio l'anno scorso l'Arabia Saudita ha ottenuto il miglior voto possibile (ossia "0") alle due voci "difficoltà ad assumere" e "difficoltà a licenziare", nonostante in questo paese i sindacati siano fuori legge, la contrattazione collettiva proibita e alle donne siano vietate molte occupazioni. Ci sono altri esempi, e la Icftu li segnala tutti, ricordando anche che molte sedi locali della Bm stanno usando Doing Business e in particolare i suoi capitoli sul lavoro per promuovere presso i governi una deregolamentazione molto simile allo stato di natura. I rappresentanti dell'Icftu hanno chiesto che dal Rapporto fossero espunti gli indicatori incriminati, senza ottenere risposta. Inoltre il sindacato sottolinea un comportamento ambivalente dell'istituto, dal momento che tutti i suoi presidenti hanno sostenuto pubblicamente la campagna per i diritti dell'Oil e le sue convenzioni internazionali. "La Banca mondiale dovrebbe fare chiarezza - ha dichiarato il segretario generale dell'Icftu Guy Ryder -. Se ritiene sinceramente che i principi fondamentali del lavoro stabiliti dall'Oil siano benefici per lo sviluppo, non può andare in giro elogiando come best performer nelle relazioni industriali paesi che non fanno parte dell'Oil e non ne rispettano gli standard più elementari". Ryder non ha dubbi: "la Banca mondiale dovrebbe ritirare la competenza sul mercato del lavoro al dipartimento che elabora il Rapporto, e smettere di usare Doing Business come piattaforma per le sue proposte di riforma". Alla fine della giostra sorge il dubbio che quell'82esimo posto assegnato all'Italia non sia poi così disdicevole. Incombe l'eterna domanda: è meglio arrivare primi barando o ultimi con fair play? Chi non sa la risposta, non la vada a cercare in Micronesia. ( www.rassegna.it, 8 settembre 2006 )