martedì 20 marzo 2007

Quando un medico ascolta il personale di un ipermercato.

Si crede che il progresso tecnologico possa liberare l’uomo dalla alienazione dal lavoro. Quel tempo non è ancora arrivato. Ne è una testimonianza un libro molto interessante: Diario di un medico del lavoro. La sofferenza al lavoro, Le Cherche midi - Témoignage, Paris, 2006, di Dorothée Ramaut, uscito da poco in Francia, suscitando molto interesse, interviste televisive e numerose recensioni; citiamo ad esempio quella su L’Humanité, Le Monde e Le Figaro. Ci auguriamo che venga tradotto presto in Italia e che, anche nel nostro paese, medici del lavoro coraggiosi ed indipendenti compiano analoghe “imprese“. Viviamo in una società nella quale ciò che non è detto non esiste, può esistere solo quello che può essere nominato, scritto nei giornali o comparire in televisione. Ecco perché rompere il silenzio è essenziale e liberare le parole della gente che soffre, per dirla con l’autrice, diventa importante.
Il libro della Dottoressa Ramaut affronta gli impatti e gli effetti "collaterali " di una organizzazione aziendale, quale quella di un ipermercato parigino. Da giugno del 2000 a marzo del 2006, ha tenuto fedelmente un diario delle sue consultazioni quale medico del lavoro, e offre una testimonianza straordinaria delle “sofferenze” subite dai salariati. E’ stato calcolato che in Francia il costo economico dei danni alla salute, della sicurezza e dei maltrattamenti da lavoro sia tra i 45 e i 70 miliardi di euro ogni anno.
I casi che presenta, rilevabili per ora solo dalle interviste rilasciate e dalla lettura di qualche brano in lingua originale, sembrano casi limite, lontani dalle dinamiche interne al “mondo coop”. Tuttavia, il fatto che succedano in un paese molto avanzato quale la Francia, e nel settore anch’ esso moderno della grande distribuzione commerciale, rendono la divulgazione del libro un dovere di informazione ineludibile.
Di seguito riportiamo l’intervista che Dorothée Ramaut ha rilasciato al quotidiano Il Manifesto:

LA SOLITUDINE DELLE CASSIERE

di Anna Maria Merlo

Parigi - Quando Engels ha scritto sulla situazione della classe operaia in Inghilterra, nel 1848, c'erano più domestici che lavoratori delle manifatture, ma aveva capito che la novità era qui.
Così oggi, anche se i dipendenti degli ipermercati o dei call center non sono maggioranza, è in questi luoghi che si configurano le condizioni di lavoro che il nuovo capitalismo vorrebbe generalizzare.
Pressione delle gerarchie, sui lavoratori precari e su se stesse, solitudine del lavoratore a causa della progressiva debolezza sindacale, paura di perdere il posto: questa situazione viene interiorizzata, si ripercuote sulla salute. Per questo lo sguardo di un medico del lavoro può oggi aiutare a capire come si configurano le nuove sofferenze sul lavoro.
Dorothée Ramaut da vent'anni è medico del lavoro in un ipermercato della periferia parigina.
Ha appena pubblicato un diario della sua esperienza, Journal d'un médecin du travail. Témoignage (Le Cherche Midi, 174 pagine, 10 euro), dal giugno 2000 al marzo 2006, che sta sollevando in Francia grande interesse.

Come si è resa conto che i lavoratori, anche i quadri, vivevano la sofferenza che lei descrive?

Non me ne sono resa conto subito. L'azienda, quando qualcuno non stava bene, aveva sempre la stessa giustificazione: è un cattivo elemento. Ma quando ho avuto di fronte a me uno di questi cattivi elementi, che lavorava nel supermercato da più di 15 anni, mi sono interrogata, mi sono detta : ma qui c'è qualcosa che non va. Il problema è che i quadri sono inseriti in un sistema dove sono contemporaneamente protagonisti e vittime.

Lei sottolinea la solitudine dei lavoratori.

Non c'è più solidarietà, ma regna la paura. I sindacati sono paralizzati, perché sono costituiti da esseri umani, che vivono nella paura. Tutti sanno cosa succede quando qualcuno sta male, lo sanno i quadri dirigenti, lo sanno i clienti dell'ipermercato, che osservano la situazione, lo sanno le istanze esterne, come l'ispettorato del lavoro, i controllori della Sécurité sociale, i comitati di igiene e sicurezza. Ma nessuno dice niente.
La gente accetta il sistema perché non può fare altrimenti.
Nelle imprese della grande distribuzione c'è molto precariato, molto subappalto e molti sono alla ricerca di un posto. Le persone si sentono rivali tra loro, le solidarietà non funzionano più, le strategie professionali e di difesa non funzionano più. I più deboli diventano vittime, ma la mia esperienza mi ha mostrato molti casi in cui uno che si credeva forte, che era un capo, da un giorno all'altro si ritrova debole a sua volta, senza capire perché.

Le malattie che queste persone sviluppano sono soprattutto psichiche o anche fisiche?

Ci sono malattie fisiche, mal di schiena, mal di testa, ipertensioni arteriose, eczemi, psoriasi, fino all'infarto, con la morte come conclusione, ulcere, diarree. E' difficile quantificare.
Poi ci sono le malattie mentali, depressione, incubi, persone che si svalorizzano, che perdono la stima di sé, cosa che può arrivare fino al suicidio. E' l'identità dell'individuo che viene toccata e questo lascia sempre delle tracce.
Queste persone dall'identità demolita, demoliscono a loro volta quella degli altri.
La sera, a casa, si sfogano sulla famiglia.
C'è da chiedersi come fanno a trasmettere dei valori ai figli, quale valore del lavoro possano tramandare. Ma ogni volta che ho osservato un caso di malattia del genere, la direzione mi ha sempre risposto: non è il lavoro, è perché il dipendente ha dei problemi privati. Questa risposta evita così di fare un'analisi del lavoro.
Anche stamattina, la stessa cosa: un'impiegata con problemi di salute, «è la menopausa» mi ha detto il capo. Tutto viene addebitato all'individuo, evitando così di rimettere in causa il lavoro. Mentre tutti gli studi dicono che quando il lavoro non va ci sono ripercussioni sulla vita privata, mentre il contrario non è vero, anzi.
Almeno c'è il lavoro, si dice quando ci sono problemi privati.
Un tempo i lavoratori erano fisicamente stanchi. Ma c'era lo spazio per recuperare. Oggi non è più possibile, quando il lavoratore è ferito nell'identità personale.
Nel mio supermercato i dipendenti non vengono criticati per sbagli fatti sul lavoro, cosa che può essere compresa, ma toccati nell'identità : a chi ha più di 35 anni, chiamati «italiano», «portoghese», invece che per nome, «di gente come te sono piene le pattumiere», ecc. E' destabilizzante.

Lei scrive che i medici del lavoro hanno oggi la responsabilità di denunciare la situazione, per non farsi accusare, come è stato con l'amianto, di aver chiuso gli occhi?

E' la stessa cosa. Noi sappiamo, ma poi non riusciamo a farci ascoltare. Mai viene chiesto il parere a un medico del lavoro nello spazio pubblico. Per questo ho scritto questo libro. Ma non pensavo che avesse un impatto del genere: la situazione è quindi più grave di quello che pensassi.

Eppure le leggi di protezione dei lavoratori esistono, come mai non funzionano?

Certo, l'arsenale giuridico esiste. Ma quando un lavoratore denuncia un caso di molestia sul lavoro, è molto difficile trovare delle testimonianze. Siamo sempre di fronte alla stessa questione: domina la paura, le solidarietà sono scomparse, conta solo la redditività, i profitti a breve. La riscossa deve partire a livello di ogni impresa, secondo me, per ritroavre il rispetto reciproco, per ristabilire il dialogo.
Anche le imprese devono capire che l'essere umano deve essere rimesso al centro. Oggi in Francia si parla molto di rimettere al lavoro le persone di più di 50 anni.
Ma se le trattano così, nessuno accetterà. Io sono costretta a consigliare a qualcuno che soffre di andarsene, di licenziarsi. Quando c'è stata la rivolta delle banlieues, l'anno scorso, è stato detto: è colpa del fatto che non hanno lavoro.
Ma se poi, sul lavoro, c'è un'estrema violenza, come se ne esce?


(Il manifesto, 11 ottobre 2006)

3 commenti:

Anonimo ha detto...

“L’economia politica - scrive Marx nei Manoscritti economico-filosofici (1968, p.196) - occulta l’alienazione che è nell’essenza del lavoro per questo: che essa non considera l’immediato rapporto fra l’operaio (il lavoro) e la produzione”. Esiste un’ideologia che domina il pensiero economico moderno sin dai tempi di Adam Smith e da cui non è andato esente nemmeno il pensiero socialista: l’ideologia del lavoro-merce.[...]

Per capire l’ideologia del lavoro-merce bisogna capire l’alienazione del lavoro. E per capire l’alienazione bisogna partire dal significato giuridico del concetto: alienazione come atto di trasferimento di un diritto a titolo oneroso. Ma solo se si riflette sul fatto che col contratto di lavoro il lavoratore vende, non una merce, bensì la propria libertà, si può capire anche il senso in cui quel termine viene usato nelle scienze sociali e nel linguaggio politico. Alienazione nel lavoro vuol dire perdita della libertà.[...]

Dal punto di vista del datore di lavoro l’attività lavorativa è una sua proprietà. Dal punto di vista del lavoratore, reciprocamente, è proprietà di un estraneo. Così alienazione vuol dire anche “estraniazione dall’attività lavorativa”. Nel processo produttivo in cui il lavoratore entra in forza di un contratto di lavoro l’attività lavorativa stessa non gli appartiene: in essa egli non svolge alcuna libera energia, non prende alcuna libera decisione.

La sua attività non è volontaria, è forzata, è lavoro costrittivo, ed egli è propriamente in sé, è sé stesso, soltanto al di fuori del lavoro. In questo senso alienazione significa che il lavoratore si rapporta alla propria attività come a un’attività non libera, un’attività svolta sotto il comando, la costrizione e il giogo di un altro soggetto. Lavoro salariato vuol dire lavoro alienato.

E se non piace Marx, lo si dirà ancora con le parole di Cicerone (1962, p. 266): “sordida è l’occupazione in cui si trovano gli operai, poiché nulla di veramente libero si può trovare in un opificio”.[...]

Marx aveva capito il ruolo svolto dal rapporto di lavoro nel creare le condizioni della produzione di plusvalore. Già nelle sue prime opere economiche aveva compreso che nel contratto di lavoro “l’operaio libero [...] vende se stesso, e pezzo a pezzo” (Marx, 1945, p. 19).[...]

FONTE
"Contratto di lavoro, regimi di proprietà e governo dell’accumulazione: verso una teoria generale del capitalismo" di Ernesto Screpanti

Libero adattamento

mario ha detto...

“ Deve esserci qualche cosa di veramente storto, nella società, se una persona in buona salute e senza carichi familiari, inoltre munita di un proprio mezzo di trasporto, può a stento sopravvivere con il sudore della fronte ” . (138) E questa cosa veramente storta non è altro che un sistema produttivo basato sullo sfruttamento, tale per cui la sua vita dipende dal sudore, le lacrime ed il sangue di una intera classe sociale. Sono “ pure lacrime umane ” (65) quelle che puliscono i pavimenti di marmo delle case della borghesia. E ’ il “ sangue del proletariato di tutto il mondo ” (66) che “ ha estratto questi marmi, tessuto i tappeti persiani fino a rovinarsi gli occhi, raccolto le mele per il centrotavola della sua deliziosa sala da pranzo, guidato i camion per rifornirla di tutto questo ben di dio, che ha costruito questa reggia e che ora si rompe la schiena per pulirgliela ” . (66) E ’ l ’“ altra America ” che si ammala di mal di schiena, artriti e crampi, che vive malata per non morire di fame, che compra il cibo in supermercati per cifre che sono una “ vera e propria estorsione ” (31), che fa arricchire gente che “ ha un sacco di tempo da perdere ” (31), che vive per la strada per consentire ai suoi strozzini di vivere in vere e proprie regge. E ’ il proletariato di tutto il mondo che viene quotidianamente strangolato, umiliato ed immiserito per far vivere i propri sfruttatori nel lusso. Ma: “ Un giorno, i poveri che lavorano si stuferanno di ricevere così poco in cambio e pretenderanno di essere pagati per ciò che valgono. Quel giorno, la rabbia esploderà e assisteremo a scioperi e distruzioni. Ma non sarà la fine del mondo e, dopo, staremo meglio tutti quanti. ” (153).
Da Barbara Ehrenreich, Una paga da fame. Come non si arriva a fine mese nel paese più ricco al mondo, Feltrinelli, Milano, 2002.

Anonimo ha detto...

You write very well.